Silvano Donadoni, primo cittadino di Ambivere, non andrà alla commemorazione al cimitero del capoluogo con il presidente della Repubblica: "La Regione dovrebbe chiamarci per programmare la risposta all'ondata che tutti dicono arriverà in autunno, invece nessuno fa niente. Giusto e necessario onorare la memoria delle nostre vittime, ma penso che il miglior modo per farlo sia fare tesoro degli errori e porvi rimedio. Perché quello che è accaduto non si ripeta di nuovo"
“No, non andrò”. A Bergamo Sergio Mattarella presenzierà insieme a oltre 200 sindaci della provincia al requiem organizzato in omaggio ai morti che durante l’emergenza non hanno potuto avere un funerale. Ci sarà anche il governatore Fontana, ma Silvano Donadoni resterà ad Ambivere, in protesta. “La Regione dovrebbe chiamarci per programmare la risposta all’ondata che tutti dicono arriverà in autunno, invece nessuno fa niente”, spiega il primo cittadino al telefono dal suo studio medico nella cittadina di 2.400 anime a venti chilometri dal capoluogo.
A quattro mesi dall’inizio dell’emergenza, la città martire e le sue terre cercano di elaborare un dolore che non vuole passare. “Specie all’inizio abbiamo combattuto a mani nude – racconta -. Non avevamo esperienza, né camìci, né niente. E a livello istituzionale sono stati commessi errori evidenti: la partita Atalanta-Valencia con 40mila persone e la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano, tanto per fare due esempi. Certo, la violenza con cui l’epidemia si è abbattuta su di noi era difficilmente prevedibile, ma ora sappiamo di cosa si tratta”. Adesso la parola d’ordine per Donadoni, classe 1952, eletto con una lista civica il 26 maggio dello scorso anno, dovrebbe essere una: programmazione. “Ora che la bufera si è placata bisogna dotarsi di piani di emergenza, individuando presidi in grado di assorbire i contagi, formando personale e preparando piani di intervento per non farci trovare impreparati dalla nuova ondata attesa in autunno. Ma io, da sindaco e da medico, non ho notizie che questo stia avvenendo”.
“Ormai dobbiamo abituarci a pensare che quello pandemico sia un rischio con cui dobbiamo fare i conti come quello idrogeologico e quello sismico – prosegue Donadoni, che fu assessore provinciale alla Protezione civile nell’inverno del 2002, quando la bergamasca fu funestata da una serie di alluvioni che fecero migliaia di sfollati -. La Regione dovrebbe riunirci per confrontarsi con noi sul da farsi. Invece veniamo convocati per partecipare a una commemorazione. Per carità, è giusto e necessario onorare la memoria delle nostre vittime, ma penso che il miglior modo per farlo sia fare tesoro degli errori fatti e porvi rimedio. Perché quello che è accaduto non si ripeta di nuovo”.
La protesta di Donadoni affonda le radici negli albori dell’emergenza: “Il 23 febbraio la Regione convocò tutti i sindaci della provincia in sala Papa Giovanni, nel centro di Bergamo”, ricorda. Un assembramento in piena regola neanche 72 ore dopo che il 38enne Mattia Maestri era risultato positivo al tampone, diventando per tutta Italia il “paziente 1” di Codogno. Prima domanda: “Come si può, con una pandemia alle porte, mettere insieme in una sala chiusa tutti i sindaci, quelli che l’indomani avrebbero dovuto tenere la cabina di regia dell’emergenza, con il rischio di decimare la classe dirigente del territorio?”.
Punto secondo: i numeri dei tamponi positivi crescevano di ora in ora, ma “l’unico a presentarsi con la mascherina ero stato io – ricorda il sindaco -. Quando entrai tutti mi guardavano come fossi un marziano. Prima dell’inizio dei lavori, in fondo alla sala vidi un dirigente dell’Ats (Agenzie per la Tutela della Salute, nate nel 2015 al posto delle vecchie Asl, ndr) e lo raggiunsi per chiedergli per quale motivo le autorità sanitarie non avevano pensato a dotare i presenti di dispositivi di protezione. Non ne ebbi il tempo, perché appena mi avvicinai quello si mise a ridere: ‘Ma cosa fai con la mascherina?’, mi domandò con fare scherzoso. ‘Sei un medico, non ti vergogni? Dovevi pensare tu a darle a tutti’, gli risposi”. E lui? “Niente, abbassò la testa e non disse nulla”.
Eppure la sensazione che stesse accadendo qualcosa di grave era nell’aria. “Io tornavo da Firenze dov’ero andato per un congresso e le notizie che arrivavano erano preoccupanti. Tanto che con un collega eravamo andati in giro per le farmacie della città a cercare mascherine. La percezione già c’era, ed era di estrema preoccupazione”. Il giorno dopo, poi, dall’assemblea di Bergamo non uscì nulla di concreto: “Non ci fu nessun dibattito – conclude Donadoni – Parlarono i soliti titolati, tra cui il presidente Fontana e l’assessore Gallera, e tutti a casa. Nessuna programmazione, niente”. Oggi Bergamo accoglie il presidente della Repubblica per piangere i suoi 6mila morti, solo una parte dei 16mila di tutta la Lombardia, ma non è cambiato molto.