Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)
Quando José Serrizuela sistema il pallone sul dischetto Ivica Osim è già chiuso negli spogliatoi. Se n’è andato via subito dopo la fine dei supplementari, appena in tempo per dare le ultime istruzioni ai suoi giocatori. Perché il commissario tecnico della Jugoslavia non ha nessuna intenzione di assistere ai calci di rigore contro l’Argentina. Non in quel pomeriggio che assegna un posto nella semifinale del Mondiale, non sotto quel sole che inzuppa le maglie e comprime i polmoni. È stanco, Ivica Osim. E ancora non è riuscito a seppellire quel nero presentimento che lo accompagna da quando è sbarcato in Italia. Per questo non vuole vedere. Perché ha paura di sapere già come andrà a finire. L’incubo è iniziato già da qualche tempo, ma prende forma nella prima settimana di maggio del 1990, in Croazia.
L’Unione Democratica Croata vince le elezioni e si prepara a trasformare in realtà il suo programma elettorale: salutare senza troppi ringraziamenti la Federazione jugoslava. Le tensioni che tagliano il Paese si fanno sempre più forti ed esplodono per la prima volta il 13 maggio. Al Maksimir di Zagabria va in scena una partita delicatissima. Da una parte i padroni di casa della Dinamo, dall’altra la Stella Rossa di Belgrado. Sono l’espressione di due nazionalismi che si guardano con un odio sempre crescente, che non hanno più intenzione di convivere. Gli ospiti arrivano a migliaia. A guidarli c’è Željko Ražnatović, successivamente noto come Arkan e futuro capo di un gruppo paramilitare filoserbo particolarmente dedito alla pratica del genocidio e della pulizia etnica. Gli scontri sono inevitabili. È l’inferno. Volano calci e pugni, i più smaliziati si mettono a saltare a piedi uniti sul corpo di chi è caduto a terra. La polizia interviene e carica i croati che invadono il campo.
Solo che all’improvviso Zvonimir Boban, il numero 10 della Dinamo, decide di centrare con un calcio un poliziotto che sta infierendo su un tifoso croato. Boban viene squalificato per 4 mesi, ma il suo gesto che fa il giro del mondo, diventa il simbolo delle rivendicazione di un popolo intero. Il 3 giugno, a Zagabria, la Jugoslavia affronta l’Olanda nell’ultima amichevole premondiale. E i tifosi croati non fanno altro che contestare la propria squadra, identificata ormai come simbolo del nazionalismo serbo. I fischi coprono l’inno jugoslavo, poi sugli spalti la gente inizia a urlare “Boban! Boban!” e “libertà!”. L’unità nazionale sembra già compromessa. Anche la Slovenia ha iniziato da tempo ad agitare la parola separazione. Lubiana critica apertamente la politica del governo federale di Ante Marković, sostiene la necessità di creare una confederazione “morbida” nella quale i legami con gli altri stati siano ridotti all’osso.
Poco dopo ricominciano i lavori della Lega dei partiti comunisti di Jugoslavia, sospesi a gennaio per l’abbandono da parte dei delegati sloveni. Ne esce un documento in cui il Partito rinuncia ufficialmente al monopolio del potere e annuncia elezioni libere a livello federale. Le forze centrifughe sembrano ormai impossibili da contrastare. Così Slobodan Milošević annuncia che, in caso di collasso della struttura federale dello Stato, la Jugoslavia rivendicherà i suoi confini storici, che assorbono la Bosnia Erzegovina e una parte della Croazia.
La Nazionale di Ivica Osim arriva in Italia a tre giorni dall’inizio del Mondiale, accompagnata dall’etichetta di Brasile d’Europa. Eppure la Jugoslavia non sembra avere più niente del futbol bailado. I musi sono lunghi, i nervi scoperti. Nel ritiro non c’è traccia di sorrisi. Anzi, si convive con la paura. Paura di fallire, di tornare a casa, di un futuro a tinte sempre più fosche. I giocatori se ne stanno in piccoli gruppetti modellati sulla loro origine etnica, sulle loro diverse religioni. D’un tratto tutto inizia a essere insopportabile. E si vede a occhio nudo. Prima dell’esordio contro la Germania, Osim si presenta davanti ai microfoni. “Io ho cinque Baggio da gestire – dice – beata l’Italia che ne ha uno solo, e voi mi venite pure a chiedere perché non ho chiamato Skoro, bravi, come se in quel ruolo non ne avessi già abbastanza”.
E ancora: “Purtroppo si gioca in 11 e non uno per uno. Tutti i nostri grandi calciatori giocano allo stesso modo, hanno lo stesso comportamento. Io ci penso tutti i giorni: come sistemarli insieme?”. Il primo tentativo è un disastro. Contro la Germania Ovest finisce 4-1. I centrali difensivi di Osim sono friabili, ma i problemi più seri riguardano centrocampo e attacco. “Se potessi li cambierei tutti”, dice il cittì. Per giorni Ivica ripete sempre la stessa litania: “Il cervello non basta, bisogna avere tenuta e forza fisica”. Oppure: “I miei giocatori non hanno l’abitudine a marcare“. O anche: “La mia non è una squadra di corridori”. Le vittorie contro Colombia (1-0) ed Emirati Arabi Uniti (4-1) consentono alla squadra di passare il girone.
Osim però non ha neanche il tempo di festeggiare. Un giornale di Belgrado lo accusa di aver bevuto undici bottiglie di whisky in una sola serata. Un’ipotesi improbabile ma comunque sufficiente a far entrare in silenzio stampa il commissario tecnico. Agli ottavi di finale la Jugoslavia affronta una Spagna in grande difficoltà. Il nucleo del Real Madrid ha apertamente contestato le scelte di Luisito Suarez, Emilio Butragueño non è in forma. Alla fine la squadra di Osim vince 2-1 grazie a una splendida doppietta di Dragan Stojković. I tifosi, che per tutto il Mondiale non avevano sventolato bandiere jugoslave ma quelle delle proprie nazioni, ora srotolano uno striscione in cui Osim viene ritratto come se fosse Tito. “Dite che ho fatto la differenza come Maradona? Grazie – dice Stojković al fischio finale- è un complimento ma non so se è davvero così”.
Il 30 giugno, ai quarti di finale, i Plavi affrontano proprio l’Argentina di Maradona. “Di loro non bisogna temere tanto le stelle, quanto i gregari“, ripete Osim prima della partita. Una frase che suona quasi come una profezia. Sabanadzovic marca a uomo Maradona. E viene espulso. Gli Jugoslavi riescono ad avere più occasioni da gol, ma ne sprecano una dopo l’altra. Prima con Jozić, poi con Sušić. Si va ai supplementari e stavolta è Savićević che spedisce alto un assist di Stojković. Osim osserva e fa stramazzare al suolo il suo quintale. Poi quando José Serrizuela sistema il pallone sul dischetto si è già chiuso negli spogliatoi. Segnano Serrizuela, Burruchaga, Prosinečki, Savićević e Dezotti. Sbagliano Stojković, Maradona, Troglio e Brnović.
L’ultimo rigore spetta a Faruk Hadžibegić. Se segna si va a oltranza. Se fallisce l’Argentina vola in semifinale. Sulla linea di porta Goycoechea si sistema i pantaloncini e arriccia la faccia in una smorfia. Hadžibegić aspetta il fischio e prende la rincorsa. Un passo, due passi, tre passi, quattro passi. Poi lascia partire un destro indirizzato alla sinistra del portiere argentino. Si dice che i grandi portieri non parano i rigori. E Goycoechea, che doveva essere la riserva di Pumpido, respinge il tiro con i pugni. Faruk Hadžibegić si gira frastornato. In tanti dicono che quell’errore dal dischetto ha disgregato la Jugoslavia. Il numero 5 ci crede. Almeno per diversi anni. Poi si mette l’anima in pace e capisce che quel processo di distruzione era già in atto da tempo.
A fine partita Osim compare in sala stampa. È pallido, ha i capelli bagnati, lo sguardo perso. “I rigori? Perché volete sapere dei rigori – dice – non sono cose importanti, ci sono state altre belle azioni durante la partita? È solo una questione di fortuna“. I giornalisti insistono, vogliono sapere perché è andato via. Osim si sporge sul tavolo e gesticola: “Non avete capito niente, sono stufo di rispondere a queste domande senza senso”. Domande che tornano a tormentarlo ancora, soprattutto di notte. Perché quando non riesce a prendere sonno Osim ripensa a quei rigori che non ha visto, ripensa a quella semifinale che non ha giocato. E si ripete che forse, se Goycoechea non avesse parato quel maledetto rigore, la guerra in Jugoslavia non sarebbe mai scoppiata. Ma d’altra parte le illusioni sono l’anestetico migliore.