Come ormai abbiamo imparato la strada per lo sviluppo del vaccino contro Sars Cov 2 e prevenire Covid 19 è lunga anche se quello potenzialmente più avanti, il composto di Oxford in fase II-III, potrebbe essere pronto nel giro di pochi mesi. Intanto però le vie della ricerca hanno intrapreso anche altre strade: “Ci sono oltre 70 anticorpi monoclonali in sviluppo, i dati sono molto promettenti in vitro e sugli animali. I dati clinici – spiega Guido Silvestri, direttore del dipartimento di Patologia presso la Emory University di Atlanta, in audizione in Commissione Affari sociali sulla sperimentazione in atto per il trattamento dei pazienti affetti da Covid-19 con il plasma e sulle altre sperimentazioni in corso – dovrebbero essere disponibili entro fine anno, prima dei vaccini. Per questo dobbiamo farci trovare pronti. Se verso novembre-dicembre arriverà l’evidenza clinica su questi anticorpi, ovvero che proteggono contro l’infezione, dobbiamo essere pronti per avere un numero di dosi sufficienti per trattare un alto numero di persone. L’emivita di questi anticorpi è di 3-4 settimane, il che significa che potrebbero essere usati in una infusione per gli infetti, ed in una infusione ogni 3 settimane per i soggetti a rischio (medici, infermieri e anziani)”.

Intanto la ricerca continua anche sul fronte dell’immunità dopo la malattia. Uno studio del Karolinska Institut di Stoccolma per ora solo su un sito di preprint, quindi non ancora validato dalla comunità scientifica, suggerisce che molte persone positive al Covid 19 con sintomi lievi o assenti risultano negative al test sierologico, ma hanno comunque un tipo di anticorpi che potrebbe essere protettivo contro il virus.

I ricercatori si sono concentrati sulle cellule T, che fanno parte dei globuli bianchi e che sono specializzate nel riconoscere e distruggere i virus con un meccanismo diverso rispetto alle immunoglobuline (Ig), che sono quelle cercate dai test sierologici. Nello studio sono stati analizzati campioni di più di 200 persone, molti dei quali asintomatici, scelti tra i pazienti dell’istituto e tra i familiari oltre che su un campione di donatori di sangue. “Analisi avanzate ci hanno permesso di mappare nel dettaglio la risposta delle cellule T durante e dopo l’infezione – spiega Marcus Buggert, uno degli autori -. Il nostro risultato indica che circa il doppio delle persone hanno sviluppato l’immunità mediata dalle cellule T rispetto a quelle in cui sono stati trovati gli anticorpi con i test sierologici”. Il risultato potrebbe avere implicazioni importanti per la salute pubblica. “Lo studio indica che l’immunità pubblica al Covi -19 sia significativamente più alta di quanto i test suggeriscano – afferma Hans-Gustaf Ljunggren, un altro autore -. Se verrà confermato sarebbe un’ottima notizia dal punto di vista della salute pubblica“.

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