Salvatore Passalacqua, insieme al suo più stretto collaboratore Antonio Piancone, è finito ai domiciliari con l'accusa intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati. I braccianti, per lo più lavoratori extracomunitari di diverse nazionalità, venivano quasi tutti reclutati nei 'ghetti' della provincia, ed erano impiegati in condizioni che gli investigatori ritengono di assoluto sfruttamento nelle sue 5 aziende agricole, che nel 2019 avevano fatturato circa 6 milioni di euro
Paghe basse, molte ore lavorate e riposi azzerati. Funzionava così, secondo la procura di Foggia, nelle cinque aziende agricole di Saverio Passalacqua, 78 anni, uno dei più importanti imprenditori della provincia pugliese e considerato il ‘re’ del marmo. I carabinieri lo hanno arrestato, insieme al suo più stretto collaboratore Antonio Piancone, con l’accusa intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati, cui si aggiungono altre violazioni in materia di formazione dei lavoratori sui rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro, nonché relative all’igiene del lavoro e all’uso dei dispositivi di protezione individuali. Piancone – sostiene l’accusa – era il tramite tra i lavoratori e l’imprenditore agricolo, posto ai domiciliari, oltre a ricoprire il ruolo di collegamento con i caporali della zona per reclutare la manodopera da impiegare nelle aziende.
I braccianti, per lo più lavoratori extracomunitari di diverse nazionalità, venivano quasi tutti reclutati nei ‘ghetti’ della provincia, ma anche comunitari ed italiani, ed erano impiegati in condizioni che gli investigatori ritengono di assoluto sfruttamento nelle sue cinque aziende agricole vicine ad Apricena, che nel 2019 avevano fatturato circa 6 milioni di euro. La procura di Foggia, guidata da Ludovico Vaccaro, ritiene di aver accertato che agli operai agricoli venivano corrisposto un compenso che variava tra i 3,33 e i 5,71 euro l’ora, violando i minimi previsti nei contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali di settore. Molti dei lavoratori, inoltre, erano impegnati nei campi tutti i giorni della settimana, per una media variabile tra le 7 e le 9 ore giornaliere, senza concessione di alcun giorno di riposo e con una pausa di circa 30 minuti per il pranzo, peraltro non sempre concessa, in assenza dei periodi di ferie e malattia.
Nell’ordinanza cautelare firmata dal gip del tribunale di Foggia, inoltre, viene descritta “la farraginosa modalità creata dall’imprenditore per garantire l’astratta corrispondenza tra quanto indicato in busta paga e quanto versato a titolo di retribuzione, che dunque prevedeva la restituzione in contanti del surplus da parte dei lavoratori”, sia “la compravendita delle giornate di lavoro, che fornisce all’imprenditore sgravi contributivi: la contestazione di un solo falso bracciante, infatti, comporta per l’azienda la restituzione di tutti gli sgravi di cui ha usufruito con riferimento al trimestre in cui è presente il lavoratore fittizio”. Nel caso del lavoratore che aveva interesse a vedersi riconosciute, ai fini contributivi, le giornate lavorative effettivamente svolte – sostengono gli investigatori – gli veniva versato un assegno o un bonifico che riconosceva il pagamento delle ore lavorate corrispondente alle previsioni normative, che il bracciante doveva poi però restituire in contanti per la parte eccedente gli accordi presi in precedenza sulla paga oraria. E questo caso riguardava tutti i lavoratori italiani.
Nel caso, degli stranieri invece, il pagamento sarebbe avvenuto sempre in maniera tracciata, ma secondo la retribuzione pattuita sotto i minimi previsti dal contratto di lavoro collettivo e l’azienda comunicava all’Inps non il numero di giornate effettivamente fatte, ma solamente quelle che andavano a far coincidere la somma elargita con le giornate che in teoria si sarebbero dovute svolgere per raggiungere quella somma. In più, le indagini hanno permesso di accertare l’esistenza di falsi rapporti di lavoro, realizzati mediante la compravendita di giornate lavorative, in virtù della quale l’azienda comunicava all’Inps l’assunzione e la messa al lavoro di soggetti che poi al lavoro non si presentavano proprio, con il vantaggio reciproco di aumentare percentualmente la quota di sgravio contributivo a favore dell’azienda compiacente, e del riconoscimento delle indennità assistenziali a favore del lavoratore fittizio.
Per l’arco temporale coperto dall’indagine, tra il gennaio ed il luglio dello scorso anno, ad avviso della procura le imprese riconducibili a Passalacqua – e ora affidate a un amministratore giudiziario – hanno avuto nel complesso un tornaconto di poco meno di 650mila euro per le retribuzioni parziali, causando un danno alle casse dello Stato di oltre 280mila euro. Le cinque aziende, nel complesso, durante l’indagine avevano un totale di 222 dipendenti, che, oltre ai 1.968 ettari di proprietà, ne lavoravano numerosi altri presi in affitto, per un volume di affari nel 2019 calcolato in oltre 5 milioni e 800mila euro.