Le mutilazioni genitali femminili e i “matrimoni” precoci e forzati sono solo gli esempi più noti di pratiche dannose alle quali sono sottoposte le donne in tutto il mondo, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli industrializzati. Mettere fine a queste pratiche entro il 2030 è un obiettivo dell’UNFPA (Agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva) che il 30 giugno ha presentato il suo Rapporto annuale in diretta mondiale. In Italia il Rapporto, intitolato “Contro la mia volontà. Affrontare le pratiche dannose per il raggiungimento dell’uguaglianza di genere” è lanciato da AIDOS (Associazione italiana donne sviluppo) con l’Agenzia di stampa nazionale DiRE.

Di tutte le pratiche dannose denunciate da UNFPA, la più diffusa è il matrimonio precoce e forzato, che ogni anno mette a rischio i diritti e il futuro di 12 milioni di bambine e ragazze. I dati riportati dall’UNFPA segnalano che, nonostante i matrimoni di minori siano vietati quasi ovunque, se ne verificano 33.000 ogni giorno, in ogni parte del mondo. Si calcola che oggi vi siano 650 milioni di donne e ragazze che si sono sposate da bambine ed entro il 2030 se ne aggiungeranno altri 150 milioni.

Sono stati fatti progressi nel rallentare la diffusione di questa pratica, ma per via della crescita della popolazione il numero assoluto delle ragazze che la subiscono è in aumento.

Il costo, incalcolabile dal punto di vista delle singole vite offese e spesso devastate dalle conseguenze dei matrimoni precoci, è stato misurato dal punto di vista economico: secondo la Banca Mondiale – si legge nel Rapporto – in solo 12 dei paesi in cui è più diffusa la pratica, la perdita di capitale umano equivale a 63 miliardi di dollari tra il 2017 e il 2030, molto più di quanto gli stessi paesi abbiano ricevuto tramite gli aiuti allo sviluppo ufficiali (Wodon e altri, 2018).

Tra le conseguenze dei matrimoni precoci vi sono abbandono scolastico, problemi di salute spesso legati alla gravidanza e al parto, violenze di genere minacciate e perpetrate, esclusione sociale che conduce a depressione e a volte al suicidio; limitazione della libertà di movimento; pesanti responsabilità domestiche. Il matrimonio precoce spesso costa la vita alle ragazze, considerando che le complicanze legate a gravidanza o parto sono la prima causa di morte per le adolescenti tra i 15 e i 19 anni, in tutto il mondo (OMS, 2018a)

Le ragazze più colpite sono quelle appartenenti alle fasce di popolazione a minor reddito e nei contesti rurali, e il fatto che abbiano meno possibilità di andare a scuola è allo stesso tempo conseguenza e causa dei matrimoni precoci, che sono l’esito di scelte prese dalle famiglie in relazione alla povertà e al relativo vantaggio economico che deriva dal cedere la figlia in un contesto di tradizioni matrimoniali che contemplano “il prezzo della sposa”.

I matrimoni infantili, infatti, aumentano nei contesti deprivati di risorse, come quelli colpiti da disastri naturali e da conflitti, oppure dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Esempi vengono dallo Yemen, dove oggi il 65% delle ragazze si sposa prima di compiere i 18 anni, mentre era il 50% prima dell’inizio del conflitto. O dalla Tanzania, dove le difficoltà economiche procurate dall’alternarsi di siccità, inondazioni e tempeste, spingono più famiglie delle comunità rurali a cedere in spose le figlie bambine.

Un’altra pratica abusiva diffusa è la mutilazione genitale femminile praticata sulle bambine, descritte dall’UNFPA come una violenza di genere approvata dalla società, parte integrante di un sistema patriarcale che sancisce il potere maschile sulle donne (sebbene l’atto in sé sia di solito eseguito da donne più anziane). Il fatto che questa pratica sia vietata nella maggior parte dei paesi in cui è in uso non è sufficiente ad eliminarla perché fa parte di un insieme di rappresentazioni trasmesse e condivise, basate su stereotipi in materia di sessualità femminile secondo cui la mutilazione proteggerebbe le donne dalla sessualità stessa sottoponendole al controllo degli uomini. Questa pratica viene definita come “il risultato di strutture di potere patriarcale che legittimano la necessità di controllare la vita delle donne, concezione che nasce dalla percezione stereotipata delle donne come principali custodi della morale sessuale, ma al tempo stesso vittime di impulsi sessuali incontrollati.”

Il dato quantificato nel 2020 dall’UNFPA è di circa 200 milioni di donne e ragazze che sono state sottoposte a una qualche forma di mutilazione dei genitali in 31 paesi del mondo, inclusi paesi occidentali, e di 4,1 milioni di donne e bambine che rischiano di subirle. Il fatto che sempre più spesso la procedura sia medicalizzata e attuata in ambiente sterile non mette al sicuro le donne dalle conseguenze sulla propria salute, sia fisica che psichica. Anche in questo caso, il divieto legale non è sufficiente a ostacolare la diffusione della pratica, che persiste in particolare le famiglie più povere nei contesti rurali.

L’elenco delle pratiche dannose è lungo, ed include anche la selezione prenatale in base al sesso, basata su pregiudizi di genere. Negli ultimi 50 anni il numero delle donne mancanti è più che raddoppiato od ogni anno le femmine mancanti sono quasi 1,2 milioni.

UNFPA evidenzia però anche i cambiamenti positivi, dando voce alle donne e agli uomini che a partire dalle proprie esperienze hanno scelto di agire per cambiare il contesto. Sono le nuove generazioni quelle più sensibili ed efficaci nel promuovere l’abbandono delle pratiche dannose all’interno della comunità. Molto più dei loro genitori hanno accesso alle informazioni sui propri diritti e sulle conseguenze di queste pratiche, ed hanno più possibilità di entrare in comunicazione tra pari e chiedere sostegno. I dati citati nel rapporto sono incoraggianti: “Sempre più elementi attestano che le nuove generazioni rifiutano gli stereotipi di genere e la preferenza per il figlio maschio, in Cina e altrove (OMS, 2011). Nei paesi con un’elevata incidenza di mutilazioni genitali femminili, le adolescenti sono più inclini, rispetto alle donne più anziane, a respingere questa pratica con un’opposizione che in alcuni paesi supera il 50% (UNICEF, 2020)”.

Nel corso degli ultimi 25 anni, cioè dalla prima Conferenza internazionale ONU sulla popolazione e lo sviluppo tenutasi al Cairo, è stato anche possibile mettere a punto strategie per incentivare il cambiamento culturale in cui gli attori sociali locali siano protagonisti.

Sono però necessari investimenti economici. Le politiche di austerità imposte dai programmi internazionali si traducono in tagli dei servizi utili a contrastare le pratiche dannose sulle donne e le ragazze, mentre secondo le stime riportate da Natalia Kanem, sottosegretaria generale e direttora esecutiva di UNFPA, con una media di 3,4 miliardi di dollari l’anno ben spesi, dal 2020 fino al 2030 compreso, si potrebbero prevenire le sofferenze di 84 milioni di ragazze.

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