Il mercato italiano dell’auto continua a soffrire, e parecchio. A giugno si sono perse altre 40 mila immatricolazioni, per un totale di 132.457: tradotto in percentuale, poco più del 23% in meno rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Che sarebbe stato anche un -30%, se non ci fosse stato un giorno in più di lavoro e se non si fosse ricorso a massicce dosi di km zero dell’ultima ora.

L’emorragia, dunque, non si ferma. E al giro di boa dei primi sei mesi dell’anno, complice la pandemia di Covid-19 e relativo lockdown, i conti evidenziano un tremendo -46%: solo 583.960 vetture, contro le 1.083.184 del 2019.

All’appello manca dunque mezzo milione di auto, che giacciono invendute nei piazzali. E che per Federauto (la federazione dei concessionari italiani) significano “40 mila posti di lavoro a rischio”, se il trend non cambierà da qui alla fine dell’anno.

Fatto tutt’altro che scontato, visto che secondo un sondaggio del Centro Studi Promotor il 70% dei concessionari del nostro Paese lamenta un basso livello di ordinativi, mentre un altro 62% denuncia una scarsa affluenza di potenziali clienti all’interno degli showroom.

Come invertire la tendenza? Secondo l’Unrae, l’associazione dei costruttori esteri che operano in Italia, c’è bisogno dell’intervento dello Stato, che oltre a ibride ed elettriche dovrebbe incentivare anche gli Euro 6 di ultima generazione, ma che tuttavia secondo il presidente Michele Crisci finora si è distinto solo per un “silenzio assordante, mentre Germania, Spagna e Francia hanno già approvato piani di sostegno”. Grazie ai quali, ad esempio, il mercato francese di giugno è già tornato in attivo.

“La ripartenza delle attività economiche”, prosegue Crisci, “non basta a riavviare la domanda di autovetture da parte di famiglie e imprese. Proiettando il dato di giugno sul secondo semestre, il mercato perderebbe altre 200.000 immatricolazioni, che, insieme al mezzo milione perso nei primi sei mesi, si tradurrebbero in un crollo della domanda di autovetture nel 2020 a 1.200.000 unità“.

Un numero, quest’ultimo, che fa paura. Perché come detto minerebbe alla base l’occupazione di un settore che vale l’11% del PIL del nostro Paese, e che frutta all’Erario diversi miliardi ogni anno: questo semestre dimezzato, ad esempio, ha tolto alle casse dello Stato circa due miliardi di euro di sola IVA, a fronte di un fatturato calato complessivamente di 9 miliardi.

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