di Leonardo Capanni
“Diversi giorni dopo la gara con la Spal ho avuto un po’ di febbre, sintomi leggeri, ma visto il momento sono stato responsabile per non mettere a rischio a nessuno. Solo dopo i test sierologici, fatti in vista della ripartenza del campionato, ho saputo di aver avuto il Coronavirus. Ho avuto paura più per la famiglia che per me stesso”. Fa quasi impressione leggere oggi le parole di Roberto D’Aversa in un’intervista concessa a Parma Today, dove, senza filtri di sorta, racconta il suo momento più complesso e indecifrabile da quando allena: il passaggio subdolo, quasi invisibile, del Covid-19 all’interno delle proprie mura domestiche, accompagnato dal fardello psicologico della responsabilità e del senso di colpa verso figli e moglie. Uno scenario che oggi risuona più lontano e meno pericoloso rispetto allo scorso marzo, quando i casi di Covid-19 avevano messo in ginocchio un intero continente dando senso e significato comune a una parola quasi esotica e astratta quale lockdown.
Ma se esiste una cifra stilistica che emerge da queste risicate ma sincere righe che sintetizzano il pensiero di Roberto D’Aversa su convivenza col virus e senso di responsabilità familiare è proprio quella della normalità, parola oggi sempre più squalificata ai massimi livelli del professionismo calcistico italiano. Quella di D’Aversa è, al contrario, la parabola in direzione ostinata e contraria di un uomo che fa della normalità del suo pensiero e della concretezza delle proprie azioni in ambito professionale un vero e proprio tratto distintivo. Cosa che, in un perfetto fenomeno di osmosi tra demiurgo e sua creatura, oggi traspare anche nel gioco del suo sorprendente Parma, ormai arrivato a giocarsi l’ultimo posto utile per l’Europa League.
Quel Parma che da nobile decaduta – sarebbe meglio dire fallita – del calcio italiano, D’Aversa si è trovato a dover traghettare dai porticcioli sperduti e inospitali della Lega Pro fino al grande porto della Serie A: un Caronte per caso, un estraneo dei salotti tv e delle dirette streaming, un allenatore concreto che ha cementato le fondamenta concettuali della sua squadra su tre pilastri: compattezza, rapidità, applicazione collettiva come moltiplicatore del talento individuale. Nella scorsa stagione, al debutto assoluto in A, è stato tacciato spesso di difensivismo nella patria dei Brera e del “nostro calcio come massima espressione di difesa e contrattacco”, poi ridotto a semplice uomo-salvezza buono per speculare su risultati a volte anche un po’ casuali, e infine sottovalutato, per non dire rimosso, dai salotti buoni dei media mainstream italiani, nonostante un’annata – quella attuale – che non riporta alcun profilo di normalità per il suo Parma.
L’esplosione su larga scala di Kulusevski, la rinascita come un’araba fenice di Gervinho, la concretezza di Kucka, le parate di Sepe, la duttilità di Hernani e infine le reti da prima punta old-school di Cornelius: quasi tutto il materiale tecnico a disposizione di D’Aversa, nonostante una profondità di rosa piuttosto risicata, è ormai sbocciato e il lavoro di valorizzazione del tecnico nato a Stoccarda è sotto gli occhi di tutti. La sua rosa, un mix di scommesse, scouting di belle speranze e mestieranti dal curriculum logoro – leggi alla voce Bruno Alves – si è valorizzata come poche altre nella massima serie, arrivando a triplicare il valore di mercato rispetto ad inizio campionato (dati via Transfermarkt).
Ma il più inaspettato successo per un tecnico così sottostimato dall’opinione comune è stato il suo modo di mettere in pratica un calcio che si è evoluto, migliorandosi nei dettagli, rispetto alla stagione da matricola in serie A. Il Parma versione 2019/20, infatti, pur rimanendo nell’alveo di quelle squadre che fanno del calcio reattivo il proprio genoma-base su cui sviluppare un’intera struttura, si è al contempo evoluto in qualcosa di più avanzato alzando il tasso di aggressività e pressing e migliorando la tenuta complessiva dei reparti, soprattutto in fase di transizione negativa, grazie anche a un’identità ormai netta e definita come una scultura ricavata da un blocco di marmo.
Quello di D’Aversa è insomma il lavoro paziente e silenzioso di un artigiano sapiente, come un falegname chiuso nella propria officina a conduzione familiare che, giorno dopo giorno, vede la sua creatura prendere forma e delinearsi sempre più nitidamente. La nemesi di una società e di un mondo del calcio così assillati dal concetto di tutto e subito, di programmazione come perdita di tempo, di attesa e maturazione come processi fin troppo ambiziosi, perfino dannosi, rispetto al risultatismo immediato ad ogni costo. Nonostante non goda di grande stampa e, anzi, sembri apparire come uno di quei character da film dei fratelli Coen dove lavorare in provincia significa sottile malinconia, conformismo e una buona porzione di frustrazioni esistenziali, Roberto D’Aversa è forse il miglior esempio di come competenza e applicazione lontano dai riflettori e dai toni sopra le righe di certe realtà pallonare italiane, risultino un fattore decisivo nella rivincita più significativa di oggi: quella della professionalità sul budget.