di Francesca Perticone*
Negli ultimi mesi si sono accese le luci della ribalta su una professione che raramente trova spazio sui media, al di fuori di aneddotici casi di cronaca, etichettati di frequente e a priori come “malasanità”. Ma proprio mentre le luci si accendono, scopriamo che gli attori sono scesi dal palco.
Che cosa è successo, quindi, alla sanità pubblica? L’emergenza Covid ha reso manifesto l’impatto della carenza del personale sanitario sulla salute dei cittadini, evidenziando i limiti di un sistema che non si fonda su una gestione oculata di risorse e professionisti, ma sulla forzatura delle capacità produttive del singolo e della classe medica in generale.
Il blocco del turn over e le misure di contenimento delle assunzioni adottate in molte regioni hanno provocato negli ultimi anni una drastica riduzione del personale a tempo indeterminato (oltre 40mila professionisti in meno a fine 2018 rispetto al 2008). Questa carenza è stata solo parzialmente compensata da altre forme di contratto precarie: assunzioni a tempo determinato o (sempre più frequentemente) contratti di consulenza in libera professione.
Un minor numero di professionisti, quindi, a soddisfare le richieste di una realtà sempre più impegnativa, con scarse tutele e riconoscimenti economici spesso non adeguati all’impegno e alla responsabilità richiesti.
Dove sono finiti, allora, gli attori? Il “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” pubblicato dalla Corte dei Conti ha sottolineato come, secondo i dati Ocse, siano almeno 9mila i medici che negli ultimi otto anni hanno lasciato l’Italia per lavorare all’estero. Il problema viene generalmente liquidato con l’espressione “fuga di cervelli”, che insieme a formule analoghe come “eroi”, “missione” e “vocazione”, aiuta ad allontanare l’immagine del medico dalla dimensione comune del lavoratore.
Non si tratta però della fuga eroica di un genio. È la scelta consapevole, e spesso combattuta, di un professionista che in Italia non vede soddisfatte le richieste basilari per poter esercitare con dignità il proprio mestiere. Prima fra tutte quella di lavorare con serenità, senza ricorrere alla cosiddetta “medicina difensiva”, un esercizio che non ha più al centro il bene del paziente, ma l’ossessione della denuncia.
Sono infatti oltre 35.000 le azioni legali intentate ogni anno nei confronti dei medici, azioni che in Italia possono portare anche a subire un procedimento penale per lesioni colpose. Il 95% dei contenziosi si conclude con un proscioglimento, ma questo dato non basta a liberare i professionisti dal timore costante di un’azione legale.
Se l’adeguamento dei contratti e lo sblocco del turn over a favore dei giovani medici sono responsabilità delle Istituzioni, sono convinta che la “medicina difensiva” si possa combattere solo con la cultura. Cultura della classe medica, attraverso corsi più seri e strutturati sulla comunicazione e la relazione con il paziente durante gli anni di studio, e una supervisione in itinere delle difficoltà individuali (soprattutto nei reparti più a rischio di “burn out”), come avviene per altre professioni socio-sanitarie. L’aspetto relazionale non può più essere trascurato e delegato alle capacità personali del singolo. È un elemento fondamentale della cura e dev’essere parte attiva del percorso di formazione di ogni medico.
E cultura dei cittadini, perché un’informazione corretta e imparziale, lontana da sensazionalismi, è l’unica arma in grado di ripristinare il rapporto di fiducia tra medico e paziente, imprescindibile in qualunque percorso di cura.
Pochi giorni fa un giovane di diciotto anni, tenuto in vita per quasi due mesi attraverso la circolazione extra-corporea dopo un’infezione da coronavirus, è stato sottoposto a un trapianto di polmoni grazie alla collaborazione di due grandi ospedali milanesi. La notizia è passata in secondo piano, ma dice molto sulla situazione della sanità in Italia. Sul palco ci sono ancora attori eccellenti, che resistono nonostante una regia non sempre all’altezza, paghe insufficienti e qualche fischio del pubblico. Puntate i riflettori su di loro, lo spettacolo non vi deluderà.
* Laureata nel 2007 in Medicina e Chirurgia, ho conseguito nel 2013 la specializzazione in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’interno di un grande ospedale milanese, dove lavoro da allora. Mamma di due bambine di tre e sette anni, mi cimento ogni giorno nell’arduo compito di conciliare famiglia e lavoro.