Continuano le proteste ad Hong Kong per dire no alla legge sulla sicurezza nazionale imposta dalla Cina. Tra le 10 persone arrestate per la sua violazione c’è anche una ragazza di 15 anni, primo vero banco di prova per i nuovi provvedimenti. Scontri violenti con la polizia si sono registrati a Causeway Bay, dove le forze dell’ordine hanno utilizzato anche cannoni ad acqua per disperdere la folla: 370 persone sono state fermate dalla polizia, soprattutto per manifestazione illegale.

Nel frattempo negli Stati Uniti si preparano contromisure e aumentano la pressione su Pechino: dopo il voto unanime della Camera (la cui speaker, Nancy Pelosi, aveva parlato di “un incredibile e brutale giro di vite”) anche il Senato approva il provvedimento che prevede sanzioni per i dirigenti cinesi che applicano le nuove regole di sicurezza repressive a Hong Kong e per le banche che hanno attività con loro. Ora la legge andrà sul tavolo del presidente Donald Trump.

Nell’ex colonia si fanno i conti sulle incognite per l’indipendenza giudiziaria e la tutela delle libertà, come ha denunciato l’ordine degli avvocati: la nuova legge prevede anche l’ergastolo per i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze esterne. Quanto accadrà ai dieci arrestati – tra cui la quindicenne – potrebbe definire i primi passi dell’applicazione della norma sulla sicurezza nazionale e le relative ripercussioni sulla società in generale. Sarà importante capire, ad esempio, se la pubblica accusa opterà per le pene più dure o addirittura per il trasferimento dei primi casi sotto la giurisdizione cinese.

La Cina, dal canto suo, ha minacciato pesanti contromisure contro Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia per le ripetute intromissioni “in vicende interne”. Il portavoce del ministero degli Esteri ha “sollecitato” Washington a capire “la realtà della situazione, fermando le interferenze negli affari di Hong Kong, altrimenti prenderemo forti contromisure”.

Il governo di Londra ha annunciato una cittadinanza più rapida per chi, nell’ex colonia, ha un passaporto di nazionalità britannica d’oltremare (Bno). Mossa che non è piaciuta a Pechino: “Tutti i connazionali cinesi a Hong Kong, compresi quelli in possesso del Bno, sono cittadini cinesi. Prima della restituzione dei territori, la parte britannica aveva chiaramente promesso che non avrebbe dato il diritto di residenza ai titolari Bno”. Il premier Boris Johnson ha deciso il cambio di passo dopo la stretta di Pechino, aprendo all’ipotesi di consentire ai 3 milioni di possessori potenziali del Bno di vivere e lavorare nel Regno Unito. Ma anche l’Australia ha aperto all’accoglienza: “Se chiedete se siamo pronti a intensificare e fornire supporto, la risposta è sì“, ha detto il premier Scott Morrison in conferenza stampa. “L’Australia la smetta di vagare ulteriormente sulla strada sbagliata”, ha intimato il portavoce del governo cinese, che ha difeso la legge definita come una “spada di Damocle” e una “porta a prova di ladro per Hong Kong”.

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