Asportare abusivamente corallo da un’area protetta può costare caro. Lo ha stabilito di recente la Cassazione (sez. 3, 23 marzo 2020, n.10469) a proposito di un pescatore abusivo che nel maggio 2018 aveva asportato circa 700 grammi di corallo rosso Mediterraneo (Corallium rubrum) da un’area marina protetta rientrante nella Zona di protezione speciale (ZPS) nel comune di Praiano, denominata “Fondali marini di Punta Campanella e Capri”. Asportazione che, come testimoniato da una consulenza tecnica, doveva ritenersi “distruttiva massiva delle colonie e nei confronti dell’habitat protetto”, con “un danno ambientale ed ecologico considerevole, sia a livello di specie che a livello di habitat”.
Danno tanto più significativo se si considera che “l’accrescimento e lungo ciclo vitale richiederà almeno 40-50 anni in assenza di raccolta o altri impatti prima che si raggiungano condizioni analoghe a quelle distrutte dalle attività di prelievo” e “il danno ambientale determinerà per i decenni a venire una riduzione del capitale naturale e dei beni e servizi eco sistemici ad esso connessi”. E, come se non bastasse, con l’aggravante che che il Corallium rubrum, specie importante dell’habitat coralligeno, è classificato come “prioritario per la conservazione” e inserito nella lista IUCN (International Union for Conservation on Nature) come “specie a rischio di estinzione” e di interesse comunitario ai sensi dell’allegato V Direttiva CE 92/43, avente, altresì, il ruolo di “ingegnere ecosistemico di lungo corso”.
Ci sono, quindi, secondo la Suprema Corte, tutti gli elementi previsti per integrare il delitto di inquinamento ambientale, che punisce con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 10.000 a 100.000 euro “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili… di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”. Chiunque, cioè, provoca illecitamente un evento di danneggiamento della matrice ambientale tale da mettere in pericolo la relazione del bene aggredito con l’uomo e i bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare. Tanto più grave se il fatto avviene, come nel caso della sentenza, in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, in quanto, in tal caso, secondo la legge, la pena è aumentata fino a un terzo, e può arrivare, quindi, nei casi più gravi, ad un massimo di 8 anni di reclusione.
E, quindi, se pure, in quel caso, l’accertamento era limitato a 700 grammi di corallo, c’è da considerare che l’episodio va inserito in un contesto certamente non isolato, attraverso modalità di asporto altamente distruttive in danno di una specie in via di estinzione; con gravi conseguenze permanenti sulla biodiversità e sul capitale naturale, non rimediabili per decenni.
Insomma, si tratta di un furto del nostro futuro che non può essere minimizzato o sottovalutato. Come giustamente ha ricordato papa Francesco, non ci si può illudere di poter essere sani in un mondo malato dove tutto è connesso e dove il vero virus è costituito dal tipo di sviluppo della nostra specie basato sulla distruzione delle risorse e della biodiversità a fini di profitto per pochi.