Cinque delle prime dieci società italiane per valore di borsa sono partecipate pubbliche. E solo il pubblico sembra disporre delle risorse - e della volontà di usarle - per sostenere un salto di scala. Negli ultimi 30 anni, il Paese si è tagliato fuori da chimica fine, farmaceutica, computer, apparati avanzati di tlc, micromeccanica, concentrandosi invece sui campi meno avanzati, abbandonati dai partner Ue. Così non resta che competere sul prezzo e si comprimono gli stipendi
Confindustria insorge contro la prospettiva dello Stato azionista. Aiuti sì ma controllo in azienda no. Eppure la storia del Paese dimostra che,senza il pubblico, l’industria italiana è incapace di pensare in grande e di superare certi limiti. Basta guardare alcune cifre per rendersene conto. Cinque delle prime dieci società italiane per valore di borsa sono partecipate dallo Stato. In linea di massima sono anche le aziende con i fatturati più alti, il maggior numero di dipendenti e i più corposi investimenti in ricerca. Se dalla decina si escludono banche ed assicurazioni, le partecipate pubbliche sono cinque su sette. In Spagna nella stessa condizione c’è solo un’azienda: Aena che gestisce aeroporti. In Francia, dove pure lo Stato è molto attivo, solo tre, inclusa una mini partecipazione dello 0,4% nel colosso del lusso LVMH.
Le prime 10 società italiane valgono tutte assieme 260 miliardi di euro. Le top ten spagnole 400 miliardi, quelle francesi 900 miliardi. E’ vero che la relazione tra imprese italiane e mercato azionario è sempre stata tiepida ma questo è sia sintomo che causa della vocazione al nanismo di molta nostra industria. Tolte Fca e Ferrari, a Piazza Affari i grandi gruppi con produzione ad alto valore aggiunto tecnologico sono tutti in ampia parte posseduti e gestiti dallo Stato. Da Eni a Leonardo (ex Finmeccanica), passando per Fincantieri, Saipem, Stm o Snam.
Fca, che pure di sostegno pubblico in varia forma nella sua storia ne ha ricevuto molto, si appresta a diventare mezza francese, dopo aver già spostato la sua sede fiscale in Gran Bretagna e quella legale in Olanda. E in Francia sta migrando anche Luxottica, dopo la fusione con Essilor. Pirelli è stata venduta ai cinesi. Molte dinastie imprenditoriali italiane hanno insomma scelto di “uscire dall’inferno della produzione per entrare nel paradiso della rendita”, per riprendere le parole dell’economista e storico dell’economia Marcello De Cecco.
Sono numeri e fatti su cui bisognerebbe riflettere quando, a prescindere, si addita come un pericolo l’ingresso dello Stato nelle grandi aziende in quanto portatore di cattiva gestione e sprechi. In Italia sembra semmai vero l’opposto e solo il pubblico sembra disporre di risorse, e soprattutto avere e avere avuto la capacità di usarle, per sostenere un salto di scala. L’industria privata italiana si è invece dimostrata poco desiderosa e capace di dar vita a gruppi con dimensioni internazionali, o anche solo di conservarli. Neppure quando vengono regalati o quasi.
Non si rammenta una grande privatizzazione culminata in un successo. Telecom è stata prima spolpata e poi ridotta ad un operatore poco più che nazionale, su Autostrade ed Ilva non è il caso di tornare. Affidata ai privati Alitalia ha proseguito esattamente sulla stessa rotta infelice. In tempi meno recenti le generosissime ricchezze distribuite ai privati quando si decise di nazionalizzare la rete elettrica (altro che esproprio…) non furono reinvestite ma volarono in larga parte all’estero. Alfa Romeo, regalata alla Fiat mentre Ford era disposta a pagare, è oggi un marchio dai volumi minuscoli, che vende un decimo di Audi. Fiat fu anche protagonista della scalata, e successiva messa in vendita a pezzi, di Montedison, una delle poche aziende di stazza globale nel settore chimico e farmaceutico. Sparita.
Così, negli ultimi 30 anni, il paese si è tagliato fuori da chimica fine, farmaceutica, computer, apparati avanzati di tlc, micromeccanica, software ed altri settori ad altro valore aggiunto tecnologico, concentrandosi invece sui campi meno avanzati, abbandonati dagli altri paesi europei. Se qualcosa sopravvive è nelle partecipate pubbliche tanto che sempre De Cecco ebbe a scrivere, già una ventina di anni fa: “E’ certamente impossibile postulare una superiorità del sistema italiano delle grandi imprese sul suo omologo pubblico”.
Non che nel paese manchino o siano mai mancate capacità e tradizioni imprenditoriali. Secoli di storia e commerci non si cancellano, come dimostra la battaglia, quasi stoica, delle piccole e medie imprese sui mercati internazionali. internazionali. Ma anche qui l’assenza di pesi massimi si fa sentire. Il mito dell’Italia esportatrice va un po’ ridimensionato. L’export vale tanto in valore assoluto, circa 400 miliardi di euro l’anno, ma poco rispetto alle dimensioni della nostra economia: intorno al 30% del Pil, uno dei valori più bassi d’ Europa. L’elevata tassazione è più una foglia di fico. Non è così diversa da quella di molti altri paesi europei. Anzi, come fotografato dal centro studi Mediobanca, per le grandi imprese spesso è più bassa.
Si ripete da anni come il male che affligge e corrode l’economia italiana sia la bassa produttività. Ossia la differenza tra il valore di quanto viene prodotto e quanto viene speso per farlo. Ma questo non accade perché gli italiani lavorano meno dei francesi o dei tedeschi, anzi il monte ore passato in fabbrica o in ufficio è maggiore. Né, tanto meno, perché guadagnano di più. Accade perché lavorano spesso con strumentazioni meno avanzate e/o in settori in cui il valore dei prodotti realizzati è relativamente modesto. Del resto, ormai da decenni, gli investimenti in ricerca e sviluppo dell’industria privata italiana languono intorno allo 0,5% del nostro Prodotto interno lordo. In Francia o Germania sono ben più del doppio. Altra conseguenza della vocazione al nanismo.
Come spiega lo storico dell’Economia Giuseppe Berta “nella storia italiana lo Stato ha avuto la funzione di creare l’architettura di sostegno alla grande impresa e di svolgere una funzione di traino tecnologico. Nel momento in cui lo Stato ha iniziato a disimpegnarsi, questo sostegno è venuto meno e le conseguenze sono evidenti. Non esiste più il vertice della piramide industriale, mentre sono aumentante le aziende di dimensioni medie, e si è abbassata l’intensità tecnologica delle produzioni”. E’ vero che in passato il contesto normativo italiano non era particolarmente favorevole all’incremento dimensionale delle aziende, fa notare Berta, ma è altrettanto vero che le aziende che hanno raggiunto una dimensione significativa hanno quasi sempre fatto leva su una qualche forma di sostegno pubblico.
Ma se il contenuto tecnologico dei prodotti non è elevato, come si compete? Sul prezzo. E non potendo più contare sulla svalutazione della moneta, i risparmi si traducono in buona misura sulla compressione degli stipendi. Vizio antico, peraltro. Nel 1950 Leon Dayton, capo della missione statunitense in Italia per il piano Marshall, che di questi tempi va di moda rievocare, sollevò un caso diplomatico esprimendo forti critiche verso le imprese italiane che “facevano profitti a spese di lavoratori sottopagati”. Lo stesso boom economico deve molto a due fattori, da un lato l’immigrazione interna che forniva eserciti di manodopera a bassissimo costo, dall’altro il fisiologico “aggancio” alle più avanzate economie limitrofe. Lo storico Guido Crainz nel suo “Il Paese mancato” identifica uno dei fattori essenziali del boom italiano nell’“utilizzo selvaggio di mano d’opera a basso costa che abbandona campagna”. Fuori da una certa retorica il percorso dell’impresa privata italiana dal dopoguerra ad oggi è fitto di ombre oltre che di qualche luce. Pubblico non è necessariamente meglio, ma è davvero difficile affermare che sia peggio.
@maurodelcorno