Per la prima volta, dopo 29 anni di testimonianze e controtestimonianze, 11 immagini fissano la nave dell'armatore di Stato dentro il triangolo in cui era vietato l'ancoraggio. Ecco cosa dicono quegli scatti trovati negli archivi di un'agenzia Usa e dell'Esa che vanno dall'aprile all'ottobre 1991. E perché sono fondamentali per la ricostruzione della storia del più grave disastro navale italiano in tempo di pace che nel mare di Livorno causò 140 morti
Il traghetto Moby Prince, rovente, sta ancora fumando. Da pochi minuti si sta tentando di fermare la sua agonia durata ore, i suoi incessanti cerchi nel mare davanti a Livorno, a marcia indietro, in attesa di soccorsi mai arrivati. Eppure, in un momento in cui non si conosce l’esatto numero di morti, né se ci siano altri sopravvissuti, in quella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 durante la quale nessuno riesce a capire cos’è successo, e come sia potuto succedere, mentre si affollano navi e bettoline, ipotesi e dicerie, testimoni e parenti e ambulanze, meno di 5 ore dopo la collisione tra il Moby e l’Agip Abruzzo, il comandante del porto Sergio Albanese piomba sulla banchina dotato di varie certezze. Tra queste c’è la nebbia, che per trent’anni ha oscurato questo disastro del mare per poi essere soffiata via dai risultati di una commissione d’inchiesta parlamentare. Ma anche la posizione della petroliera, di proprietà della Snam, allora armatore di Stato. “La posizione dell’Agip Abruzzo è senz’altro regolare” è la frase che il comandante della Capitaneria si preoccupa di pronunciare davanti ai faretti accecanti delle telecamere a spalla. Un’informazione centrale per la dinamica di uno scontro per certi versi inspiegabile. Ma non era vero: la posizione dell’Agip Abruzzo, quando fu investita dal traghetto Livorno-Olbia, non era regolare. Lo aveva detto la commissione d’inchiesta del Senato, due anni fa. E ora ci sono anche le prove.
Sono, come ha anticipato il Corriere della Sera, 11 immagini satellitari da alcuni mesi in possesso della Procura di Livorno che su impulso dei corposi faldoni della commissione del Senato ha aperto un’altra inchiesta, la terza in 29 anni, per tentare forse per l’ultima volta una ricostruzione, storica se non giudiziaria, che possa reggere, non lasci interpretazioni, dia risposte convincenti. Undici foto che dall’alto immortalano la rada del porto di Livorno durante 6 mesi: da aprile ad ottobre 1991. Più precisamente dai giorni subito successivi alla sciagura a quelli immediatamente precedenti all’addio della petroliera Agip Abruzzo alla volta del Pakistan, dove sarà smantellata.
Su queste immagini, elaborate dal geologo Alfred Komin dello studio di ingegneria integrata E-Two Consulting di Milano, una figura resta costante, col passare delle settimane e poi dei mesi. E’ quella, enorme anche in scala, della Abruzzo: 287 metri per 50. Rimane, quasi come un insistito atto d’accusa, davanti al lungomare di Ardenza e di Antignano, mese dopo mese, satellite dopo satellite, foto dopo foto. Resta sempre dove il Moby Prince l’ha travolta. Cioè all’interno del triangolo di divieto di ancoraggio e pesca, un’area in cui non si può rimanere alla fonda, perché serve alle navi come corridoio per entrare e uscire dal porto di Livorno, allora più di ora scalo trafficatissimo nel Mediterraneo.
I consulenti della commissione d’inchiesta, Antonio Scamardella e Sebastiano Ackermann, nella loro relazione avevano collezionato 19 coordinate diverse della Agip Abruzzo fornite da testimoni di varia natura prima, durante e dopo il disastro navale più grave avvenuto in Italia in tempo di pace. Durante i may day, dopo la collisione delle 22,25 del 10 aprile, ne fornisce 4 anche il capitano della petroliera di Stato, Renato Superina: le prime 3 sono tutte dentro il triangolo di divieto, la quarta è fuori di poco. Due di quelle tante coordinate finiscono perfino nelle due sentenze senza colpevoli del primo processo, negli anni Novanta. Entrambe fissano dentro l’area di divieto di ancoraggio e pesca. E’ un illecito, eppure nessuno sarà mai indagato: né tra i presunti responsabili né chi doveva controllare. Ecco perché la presenza costante della sagoma dall’alto della Abruzzo sempre dentro il triangolo di divieto sono un atto di accusa.
Ora le foto satellitari fissano per sempre la posizione della petroliera: nove immagini furono scattate dal satellite americano Landsat 5 (lanciato nel 1984 e rimasto in attività fino al 2013), altre due dal francese Spot-2 (in orbita dal 1990 al 2009). Perché sono uscite fuori solo ora? Perché il Usgs, l’agenzia scientifica degli Stati Uniti che ha anche funzioni analoghe all’italiano Ispra, gestisce l’archivio delle immagini di Landsat e ha concluso da un paio d’anni la loro riorganizzazione ed elaborazione. A queste si aggiungono le foto di Spot-2 presenti nell’archivio dell’Esa, l’agenzia spaziale europea.
Il lavoro di Komin è stato in particolare quello di elaborare le immagini con un sistema informativo geografico insieme alla cartografia nautica e altre mappe. Il risultato, scrive Komin nella sua relazione inviata in Procura per tramite dell’associazione dei familiari delle vittime del Moby Prince, è stata l’individuazione “con certezza” della Agip Abruzzo, tanto da definirne “con buona approssimazione geometrica la posizione” con un margine d’errore di non più di 12 metri.
La prima foto satellitare in cui si vede la Agip Abruzzo è del 24 aprile, due settimane dopo il disastro. Poi almeno un’immagine al mese: 19 maggio, 4 giugno, 6, 12 e 22 luglio, 31 agosto, 24 settembre, 10 e 17 ottobre e 26 ottobre. Ma perché Komin è certo che quella figura sia proprio la Agip Abruzzo? “E’ – spiega – l’unico oggetto di dimensioni compatibili che staziona con continuità nella stessa area ‘di fonda’ quasi sempre totalmente ubicata all’interno dell’area di divieto di ancoraggio e pesca“. Anche quando parte della nave sembra fuoriuscire dal triangolo di divieto (come nelle immagini del 24 aprile e del 6 luglio) il punto di ancoraggio, precisa Komin, è “posizionato internamente all’area di divieto”.
Il solo momento in cui la Agip Abruzzo uscirà da quell’area sarà quando abbandonerà del tutto il Mediterraneo. Il dissequestro, a luglio, tre mesi dopo la sciagura, fu uno degli effetti del patto tra compagnie assicurative che frenò da subito la ricerca approfondita delle responsabilità. Snam paga i danni della petroliera e dell’inquinamento dovuto agli sversamenti in mare, Navarma (l’antenata di Moby Lines) paga i familiari delle vittime. Un accordo tra i due armatori che – hanno scritto i senatori della commissione d’inchiesta – “pone una pietra tombale su qualunque ipotesi conflittuale sulle responsabilità”.
I mesi del sequestro, incredibilmente, passarono senza che la Procura ordinasse una sola ispezione a bordo (ad eccezione di un sopralluogo di gruppo durato come una passeggiata). L’unica verifica sul contenuto delle cisterne, per esempio, lo fece qualche settimana dopo un perito del tribunale civile incaricato per una questione assicurativa, ma il materiale era già stato trasferito su un’altra petroliera. Nella sua relazione al tribunale rispose più o meno: quello che mi avete chiesto l’ho fatto, ma sappiate che è del tutto inutile. Aveva chiesto il permesso di salire a bordo dell’Abruzzo, infatti, ma gli venne negato. Dall’ammiraglio Albanese, lo stesso che disse sicuro che la posizione della petroliera era “senz’altro regolare”. Poi la nave ad ottobre lasciò Livorno, fece sosta a Las Palmas e dopo aver cambiato nome (Zeus) e bandiera (Saint Vincent e Grenadine) fu demolita a Gadani Beach, in Pakistan. Ad oggi di Agip Abruzzo si conoscono solo informazioni di autocertificazione, fornite all’epoca dalla Snam (lontana parente dell’attuale società).