Il coronavirus come segnalatore d’incendio. Così si intitola il primo numero della nuova serie della rivista Su la testa, bimestrale edito dal dipartimento Cultura e formazione del Partito della Rifondazione Comunista. La rivista che è gratuita si può scaricare dal sito e prevede che i lettori possano interagire con gli autori degli articoli scrivendo direttamente sul sito. Una rivista interattiva, da scrivere, da leggere e da dibattere.

L’idea è quella di costruire uno spazio pubblico di riflessione in cui sono invitati a dire la loro tutte le anime politico culturali che si pongono il problema dell’alternativa. Una rivista promossa da un partito liberamente ma ostinatamente comunista, che vuole ricercare in modo aperto, plurale e non dogmatico la strada dell’alternativa e che vuole farlo coinvolgendo tutte e tutti coloro che condividono quella prospettiva e avranno voglia di dialogare. Una rivista di ricerca che non rincorra la contingenza politica o tantomeno la danza immobile della sua rappresentazione mediatica.

Il primo numero parte dall’assunto che questa epidemia abbia un carattere periodizzante e propone di assumere il 2020 come anno zero, come spartiacque tra due epoche. La crisi del coronavirus ha infatti reso evidente, sul piano globale, che il vero disastro è insito nei rapporti sociali capitalistici e nel carattere distruttivo che questi hanno determinato nel rapporto tra l’umanità e la natura. La rivista propone di partire dalla presa d’atto che il coronavirus ha sbugiardato tutte le grandi narrazioni che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra.

Ci avevano raccontato che il libero mercato e la libertà d’impresa davano vita al migliore dei mondi possibili. Al contrario ci siamo accorti che a difenderci dal Covid c’erano solo lo Stato, i tanto vituperati dipendenti pubblici e le reti di solidarietà sociale territoriale. Ci avevano raccontato che l’occidente è assediato dai popoli del terzo mondo e che la Nato è li a difenderci e ci siamo svegliati in un mondo in cui le nazioni amiche della Nato si sono rubate mascherine a vicenda mentre la piccola e vilipesa Cuba ha giganteggiato in una grande operazione di solidarietà internazionalista.

Ci avevano raccontato che lo sviluppo economico avrebbe portato progressivamente il benessere a tutto il mondo. Che sulla linea tracciata del progresso si trattava solo di dare una mano a coloro che erano più indietro ma che tutti saremmo arrivati al benessere.

Abbiamo invece scoperto che questo sviluppo oltre ad avere il benessere dei pochi fondato sullo sfruttamento dei molti, è basato anche sulla distruzione della natura e della possibilità di vivere sul pianeta Terra. L’idea che noi possiamo restare sani mentre distruggiamo l’habitat naturale ha mostrato fino in fondo la sua fallacia. Non solo l’idea dello sviluppo ma quella del progressismo vengono messe fuori gioco da questa pandemia.

Ci avevano raccontato che dopo la seconda guerra mondiale tutti gli uomini e le donne valevano nello stesso modo. Invece abbiamo visto anziani ultra-sessantacinquenni lasciati morire perché la loro aspettativa di vita e la loro possibilità di guarigione era “troppo bassa”. Il soft power ha dato luogo ad una vergognosa selezione soft che ha la sua origine nei tagli alla sanità pubblica di chi in questi decenni ha favorito il privato e la sanità come fonte di profitto. Torna qui alla mente la categoria di “banalità del male” proposta da Hannah Harendt.

Da queste considerazioni parte la proposta della rivista di affrontare insieme i grandi nodi aperti per costruire l’alternativa a un capitalismo che non è in grado di delineare un futuro per l’umanità. Una proposta che in questa era dell’antropocene parte dalla necessità di costruire un comunismo verde, in cui lo sfruttamento della natura sia combattuto insieme a quello sul lavoro.

Una proposta che in questo primo numero hanno accolto in tanti, del mondo cattolico, ambientalista, associazionistico, sindacale, della sinistra. Perché chi vuole costruire l’alternativa a questo capitalismo deve cercare ancora. Insieme.

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