“Ennesimo collaboratore di giustizia morto. Siamo l’unica categoria che dai tempi di Buscetta ad oggi, uccidono e ‘suicidano’ noi e i nostri familiari e nello stesso tempo siamo quella più abbandonata e con il più scarso livello di protezione. Diranno adesso: era un ex, non si escludono nuovi coinvolgimenti, forse non è stata la mafia, ecc. Insomma, il solito nastro. La verità è che ogni collaboratore o familiare morto che ritorna a delinquere o che ritratta è principalmente una sconfitta delle istituzioni, della società civile e una vittoria delle mafie. La verità è che anche quest’uomo l’ha ucciso il ‘sistema’”.

Scrive così, sulla sua pagina Facebook, il collaboratore di giustizia e fondatore del comitato sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia, Luigi Bonaventura, a seguito dell’ennesimo omicidio di un uomo che aveva deciso di collaborare con lo Stato, Orazio Sciortino, avvenuto lo scorso 30 giugno nelle campagne di Vittoria, nel Ragusano. E non è la prima volta che, anche recentemente, un collaboratore viene ucciso. Nel 2018, il giorno di Natale, nel centro storico di Pesaro si è consumato l’omicidio di Marcello Bruzzese, 51 anni, fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Bruzzese, di Rizziconi (Reggio Calabria). Il 25 aprile del 2019 è stato ammazzato Orazio Pino a Chiavari, un ex collaboratore di giustizia anche lui ed ex personaggio di spicco della famiglia di Giuseppe Pulvirenti, legata al clan di Nitto Santapaola.

Al di là della storia di ognuno di loro, del passato discutibile e del motivo per cui hanno deciso di intraprendere una strada diversa, un dato è certo: la mafia mostra la propria forza anche in questo modo e lo fa perché talvolta lo Stato allenta le maglie della protezione. E sono gli stessi collaboratori di giustizia a denunciare la solitudine, l’impossibilità di crescere con serenità i propri figli, la difficoltà a inserirsi in nuovi contesti, trovare un lavoro, l’inerzia di chi dovrebbe tutelarli e invece li abbandona al loro destino.

Nel caso dell’omicidio Sciortino, l’ultimo in ordine temporale, visto “lo scarso spessore criminale della vittima” non sembra riconducibile alla sua collaborazione con la giustizia, almeno per ora. Sciortino era anche rimasto coinvolto e ferito già un anno prima nel tentato omicidio del fratello, in difesa del quale era intervenuto a marzo 2019. Tuttavia il dibattito sul funzionamento del sistema di protezione per coloro che non sono testimoni di giustizia bensì collaboratori, resta. E come ha scritto Luigi Bonaventura, il fatto che spesso alcuni collaboratori tornino a delinquere è comunque una sconfitta per lo Stato, perché vuol dire che qualcosa non ha funzionato, che non si sono sentiti abbastanza tutelati, che hanno avuto paura.

La posizione di queste persone è in effetti singolare perché si trovano tra due fuochi: da un lato la mafia che vuole punirli per aver parlato, dall’altra lo Stato che spesso li lascia soli. L’opinione pubblica non si indigna abbastanza proprio perché li ritiene ex criminali o opportunisti. E, invece, ognuno di loro ha una storia, una propria dignità, sogna un futuro diverso, vuole avere un’altra occasione o, semplicemente, vuole garantire un’alternativa ai propri figli. È proprio grazie alle loro testimonianze, preziose, perché vengono dall’interno delle organizzazioni criminali, che è stato possibile scoprire i segreti delle mafie e combatterle, in maniera sempre più forte. E, talvolta, come nel caso di Bonaventura, si è anche assistito a un effetto domino: dopo le denunce del collaboratore di giustizia ci sono stati nuovi collaboratori che hanno deciso di cambiare rotta.

Ma è necessario un programma di protezione che li protegga veramente e che non li abbandoni a un certo punto, come accade della maggior parte dei casi. Spesso ci si trova soli, in città sconosciute, certe volte con la propria famiglia, altre da soli, con le proprie generalità ingombranti, soprattutto se si cerca un lavoro. Ci si trova sperduti e in preda alla paura, il rischio che si torni indietro è alto. E la responsabilità dell’inefficienza del sistema non è della mafia che è diventata più forte, perché la mafia in questo caso usa i metodi di sempre, ma è lo Stato a essere debole, a sottovalutare il fenomeno, a non capire che solo portando via alle organizzazioni criminali i loro aggregati è possibile indebolirle veramente.

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