Quando nel 2014 fondammo l’Atletico Diritti avevamo in mente due cose: da un lato costruire un piccolo laboratorio concreto di integrazione attraverso lo sport e dall’altro creare un luogo simbolico attraverso il quale lanciare un messaggio. Atletico Diritti è una società sportiva dilettantistica cui hanno dato vita l’associazione Progetto Diritti e l’associazione Antigone, con il sostegno dell’Università Roma Tre.

Le squadre di Atletico Diritti – calcio maschile, calcetto femminile, pallacanestro e cricket – sono tutte iscritte a regolari tornei federali, tranne quella di calcio a cinque femminile che disputa un tornei Csi all’interno del carcere romano di Rebibbia, dove il campetto da gioco non rispetta i parametri della Figc.

Con Atletico Diritti giocano insieme ragazzi e ragazze provenienti da percorsi penali, studenti universitari, braccianti stagionali stranieri sottrattisi al caporalato nel Sud Pontino, ragazzi immigrati e richiedenti asilo. Per molti di loro – approdati con i barconi proprio come Musa Juwara, il ragazzo del Gambia che ieri ha segnato un gol in Serie A a San Siro – Atletico Diritti ha sostituito la famiglia mancante nei primi tempi difficili dell’arrivo in Italia.

La vicenda di Juwara ha qualcosa di esemplare, per quanto sia quasi unica. La risonanza che l’evento genera porta l’attenzione sulle tante storie di ragazzi che arrivano senza genitori sulle nostre coste e che sognano di giocare a pallone. Nel nostro piccolo, aver dato la possibilità ad alcuni di loro di sperimentare la vicinanza, l’empatia della vita di squadra e l’emozione di un torneo è stata una grande soddisfazione.

Ma Atletico Diritti non voleva essere solamente un laboratorio sportivo non consueto. Voleva anche utilizzare il linguaggio universale dello sport per essere presente nel dibattito politico e sociale, per parlare di antirazzismo e di lotta a tutte le discriminazioni, per raccontare le diverse opportunità formali di accesso allo sport per le persone straniere e per gli italiani (presentammo al Parlamento un nostro dossier nel quale illustravamo con puntualità le diverse regole amministrative discriminatorie di tesseramento) o per chiedere verità per Giulio Regeni (il 23 e 24 aprile del 2016, insieme ad altre organizzazioni nazionali, riuscimmo a far sì che l’intera Serie A di calcio scendesse in campo con gli striscioni della nostra campagna).

Lo sport ha voce. Lo sport ha una grande voce, perché in tanti lo ascoltano e perché è trasversale a generazioni e classi sociali. Lo sport dovrebbe usare di più la propria potente voce per lanciare messaggi quali quello dei piloti di Formula 1 che prima della partenza si sono inginocchiati come segno di solidarietà al movimento Black Lives Matter.

Raccontava Gianni Mura, che più volte ha esortato giocatori e società sportive a prendere posizioni nette contro il razzismo, dell’ex centrocampista e allenatore olandese Guus Hiddink che, durante la sua breve esperienza sulla panchina del Betis Siviglia, quando si accorse che in una curva sventolava una svastica fece annunciare dall’altoparlante che la squadra non sarebbe scesa in campo fino a quando la bandiera non fosse sparita. E la bandiera sparì.

Mura ricordava anche di quando, durante una partita della Serie A tedesca, apparve nello spogliatoio dello Stoccarda un disegno con una scritta razzista sul giocatore Pablo Thiam, originario della Guinea. La società fece effettuare una perizia grafologica su tutti i calciatori. Fu scoperto che l’autore era il compagno di squadra Thorsten Legat. Lo Stoccarda prese immediati provvedimenti verso Legat.

Charles Leclerc, alla guida della Ferrari, ha deciso di non seguire i suoi colleghi nell’inginocchiarsi, pur indossando la maglietta contro il razzismo e condividendo i contenuti della dimostrazione. Sono gesti formali che potrebbero essere considerati controversi, ha spiegato su Twitter.

Certo, sono gesti formali. Sono soltanto simboli. Inginocchiarsi non riporterà in vita Georg Floyd. Ma sarà un’immagine forte guardata da tanti occhi in giro per tutto il mondo. Sarà un segno che lo sport sa usare la sua grande voce per essere partigiano e non indifferente. Anche la svastica è soltanto un simbolo. Ma i simboli non sono irrilevanti. I simboli possono essere tali solamente per qualcuno che li interpreta. Dietro ci sono esseri umani. Altrimenti sono vuote tracce senza significato.

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