Maria Curcio, moglie di Giuseppe Giglio, considerato la “mente economica” della cosca emiliana di ‘ndrangheta nel terzo millennio, ha scritto ai giudici che la stanno processando. Oggetto della missiva: l’imputata ammette gli addebiti che le sono contestati. Martedì 7 luglio i suoi legali – tra i quali c’è anche Luigi Li Gotti, storico avvocato del pentito Tommaso Buscetta – hanno consegnato una lettera a mano al presidente della Corte d’Appello di Bologna Alberto Pederiali, che guida il collegio del processo Aemilia nell’aula bolognese della Dozza. Scrive da una località protetta, perché anche la sua vita è cambiata dal 9 febbraio 2016 quando il marito, richiuso nel carcere di Spoleto, iniziò a raccontare ciò che sapeva ai sostituti procuratori Marco Mescolini e Beatrice Ronchi.
Maria Curcio, oggi 47enne, è a sua volta imputata nel processo e porta sulle spalle una condanna di primo grado a Reggio Emilia a 5 anni e 6 mesi per distrazione di beni societari e intestazioni fittizie. Risultava amministratrice e titolare di importanti quote nella galassia di società riconducibili al marito, una delle quali portata al fallimento con false fatture. Lo ha accertato il processo con la condanna di Giuseppe Giglio (sei anni con i benefici della collaborazione) diventata definitiva il 12 settembre 2017. E soprattutto lo riconosce nella lettera la stessa Maria Curcio che scrive di proprio pugno: “Intendo ammettere gli addebiti che mi sono stati mossi nel presente processo e riconosco di avere posto in essere le condotte indicate nei capi di imputazione”. Lo ha fatto, dice, “con un ruolo assolutamente marginale” e solo per tentare di salvaguardare il patrimonio familiare in un periodo in cui i problemi economici erano seri e “vedevo mio marito molto preoccupato”. Preoccupazione legittima stando alla denuncia dei redditi che nel 2012 certificava entrate pari a zero. Nello stesso anno però le reali proprietà di Giuseppe Giglio, secondo quanto accertato dagli investigatori, erano da record: 245 unità immobiliari, 39 polizze assicurative, 10 società e, dulcis in fundo, 1.008 rapporti bancari aperti con 51 diversi istituti di credito. Non male per una famiglia che dichiara al Fisco di essere nullatenente.
Nella lettera Maria Curcio ammette i propri reati, ma aggiunge che “neppure per un momento ho pensato di favorire altri soggetti, che solo successivamente ho appreso appartenere ad associazioni di tipo mafioso e con i quali non ho mai avuto alcun rapporto”. Che Maria Curcio non conoscesse i legami con la ‘ndrangheta del marito lascia perplessi, visto “il reiterato ricorso (di Giglio) alla figura della moglie per la intestazione fraudolenta” di quote societarie, come dice la sentenza di primo grado. Ma la stessa sentenza esclude per la donna l’aggravante del 416 bis chiesta dall’accusa: non ha agito per avvantaggiare la cosca che nel suo paese di residenza, Montecchio (Reggio Emilia), aveva uno dei centri nevralgici. Da quel comune in provincia di Reggio Emilia Maria Curcio se n’è andata da tempo. Lo spiega lei stessa nella lettera: “Da molti anni ho rescisso qualsiasi legame con la località di origine e con l’ambiente in cui vivevo. Ho abbracciato con convinzione la scelta collaborativa di mio marito e anzi proprio io stessa ho spinto affinché intraprendesse questa strada”. È un particolare che non era mai emerso, ma che la moglie di Giuseppe Giglio avesse un carattere forte, capace di orientare le scelte del marito, lo si deduce da alcune intercettazioni in cui i due discutono animatamente di quei beni di famiglia sui quali evidentemente esistono diversità di vedute. Maria contesta a Giuseppe di pensare solo a suo padre, sua madre, suo fratello. Ma c’è anche una moglie e ci sono anche dei figli di cui Pino dovrebbe preoccuparsi: “Devi cominciare ad aggiustare le cose Pi’, perché è giusto così. Io tengo i figli, e tu non pensi più a loro, pensi solo alla famiglia tua”.
Quando Giuseppe Giglio inizia a collaborare, mostra in effetti di essere molto preoccupato soprattutto per la vita del fratello, dicono i verbali: “Il Giglio evidenzia che non teme alcun pericolo per le donne della sua famiglia, perché ritiene che la ‘ndrangheta non colpisca donne e bambini, mentre evidenzia che potrebbe essere a rischio la posizione del fratello Giulio Giglio”. Giuseppe sa che il fratello sarà realmente in pericolo, soprattutto all’interno del carcere in cui si trova, quando si diffonderà la notizia della sua collaborazione. Ma il legame con “le sue donne”, le figlie e quella moglie forte di carattere che gli tiene testa, emerge in altri passaggi. Già nel primo colloquio chiede ai procuratori antimafia: “Ma io potrò vedere la mia famiglia, in certe circostanze? O poi devo dimenticare la mia famiglia? Questo le voglio dire, perché è la cosa più cara che ho, parliamoci chiaro, dottoressa”.
La cosa più cara, sebbene a Montecchio a volte volino scintille tra Giuseppe e Maria, come documentano alcune intercettazioni. “Prima che io me ne vada da casa mia, se ne devono andare tutti gli altri, mettitelo in testa”, dice Maria nei dialoghi riportati agli atti. E ancora: “Tu devi stare attento a ciò che mi dici. Devi stare zitto, zitto! Non mi devi fare arrabbiare mai. Perché se mi fai incazzare, sei rovinato!”. Un litigio, al termine del quale però Giuseppe Giglio intesta nuovi beni alla moglie: importanti quote societarie della New Dimension srl e della T.F. srl. Il maresciallo De Acutis in aula, durante il primo grado di Aemilia, ha detto che Maria Curcio, “dalle intercettazioni che in genere la vedono coinvolta, appare come una casalinga, senza ruoli operativi nella gestione delle società collegate al marito con lei convivente e senza particolari competenze, dunque non attiva come imprenditrice”.
In appello, dopo la consegna della lettera di pentimento, la Procura Generale ha chiesto per lei la conferma della condanna di primo grado e la difesa ha ribadito la richiesta di assoluzione. Ma la confessione di oggi apre un fronte di approfondimento che potrebbe risultare importante. La signora Curcio conclude il suo messaggio alla Corte scrivendo: “Offro all’attenzione delle Signorie Vostre il mio comportamento, sicura che sappiate riconoscere ed apprezzare la mia consapevole volontà di cambiamento e di recupero dei valori di vita condivisi. Confido pertanto in un sereno giudizio della Eccellentissima Corte a cui affido con fiducia il mio futuro”.