Il barista 53enne, malato di Sla, è morto il 13 aprile 2017 in Svizzera dopo aver convissuto trent’anni con la malattia. La moglie di Piergiorgio Welby lo accompagnò fisicamente in clinica, il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni lo sostenne economicamente. C'è attesa sull'esito del procedimento penale, che arriva dopo la sentenza emessa a settembre 2019 dalla Corte Costituzionale con cui è stato legalizzato l’accesso a questa pratica in presenza di quattro elementi (patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili, capacità di intendere e volere e paziente tenuto in vita dalle macchine)
Riparte con una nuova udienza davanti alla Corte di Assise di Massa il processo che vede imputati Marco Cappato e Mina Welby per l’aiuto al suicidio prestato a Davide Trentini, il barista 53enne, malato di Sla, morto il 13 aprile 2017 in Svizzera dopo aver convissuto trent’anni con la malattia. Tre anni fa decise di metter fine alle sue sofferenze, ricorrendo al suicidio assistito con l’aiuto di Mina Welby (che fornì assistenza per completare la documentazione necessaria, accompagnandolo poi fisicamente) e Marco Cappato (che lo sostenne economicamente, raccogliendo i soldi che gli mancavano attraverso l’associazione Soccorso Civile, di cui fanno parte entrambi insieme a Gustavo Fraticelli). Il giorno dopo, Mina Welby e Marco Cappato, rispettivamente co-presidente e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni si presentarono presso la Stazione dei carabinieri di Massa per autodenunciarsi. Nel frattempo, però, a più di tre anni da quei fatti salgono a 900 le persone che si sono rivolte all’associazione Coscioni per essere aiutate, 75 solo nel 2020.
IL SIGNIFICATO DEL PROCESSO – Il processo in questione ha un valore aggiuntivo anche rispetto alla procedimento che ha coinvolto Marco Cappato (relativo all’aiuto fornito a Dj Fabo). La sentenza emessa a settembre 2019 dalla Corte Costituzionale ha legalizzato l’accesso al suicidio assistito in presenza di quattro elementi. Non è punibile, infatti, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente “che sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetto da una patologia irreversibile” e fonte “di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili”, ma anche che sia “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Secondo l’associazione Luca Coscioni sono tre i requisiti certamente posseduti da Davide Trentini (patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili e capacità di intendere e volere), mentre resta da dimostrare la prima condizione prevista.
LA DIFESA – “Davide soffriva dolori insopportabili, ma non era collegato a macchinari” ricorda Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni e coordinatore del collegio di difesa Welby-Cappato. Che aggiunge: “In Italia avrebbe avuto diritto al suicidio medicalmente assistito, ma solo attendendo l’evolversi della sua malattia fino al punto di vedersi costretto ad essere intubato? Solo a quel punto?”. Proprio alla luce della sentenza 242 della Corte costituzionale, per verificare i requisiti indicati dalla Consulta, la difesa ha chiesto l’audizione di un consulente tecnico di parte, Mario Riccio, l’anestesista di Piergiorgio Welby, marito di Mina.
I RITARDI – Ma se sul tema del fine vita la discussione va avanti nelle aule dei tribunali, attraverso le disobbedienze civili e i singoli casi che fanno giurisprudenza, non può dirsi lo stesso di ciò che a viene (anzi, non avviene) in sede legislativa. A nulla è valso, infatti, l’esplicito richiamo della Consulta, che già a ottobre 2018 aveva dato un anno di tempo al Parlamento per emanare una legge. Si è proceduto a rilento. “Finora il Parlamento si è limitato a qualche audizione di esperti per prendere tempo – accusa Cappato – senza nemmeno arrivare alla formazione di un testo base su cui incardinare un dibattito sul tema, vista la contrarietà dei capi di tutti i partiti, di centro, di destra e di sinistra, ‘populisti’ e non, da Zingaretti a Salvini, da Meloni a Crimi”.
LA TESTIMONIANZA – Nel frattempo aumentano sempre di più le persone che chiedono di non essere abbandonate. Come Mario, architetto, con diagnosi di sclerosi multipla progressiva del 2002. Mario è tetraplegico e cattolico “ma la fede prescinde dai comportamenti dei singoli” scrive. E spiega: Sostanzialmente la mia vita non è poi così dignitosa ormai, nonostante quello che pensano le persone che mi incontrano per strada, salutandomi come se fossi un’icona, un ponte per raggiungere la loro personale misericordia di Dio. Ma nessuno si chiede quanto costi in termini economici tutto ciò”. È solo una delle più recenti richieste di aiuto tra le centinaia arrivate dal 2015. “È solo la punta dell’iceberg – racconta Cappato – di una realtà sociale che, con l’innalzamento della durata media della vita, è sempre più consistente ma è trattata con indifferenza dalla politica ufficiale dei partiti”.