Calcio

Italia 90, 30 anni dopo – Classe, muscoli e solidità teutonica: gli ingredienti della Germania più forte di sempre

L'emblema dell'unità nelle parole del leader Matthäus: "Non non ci sono più polemiche e rivalità come in Messico o come in Spagna, quando comandavano Rummenigge e Breitner. Ora siamo contenti insieme, sono amici anche quelli del Bayern e del Colonia. Simpatici? Non m’interessa, non è con la simpatia che si si vince il Mondiale"

Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Il cancelliere tedesco Helmut Kohl sistema con cura il pallone sul dischetto. Fa un passo indietro, alza la testa, carica il tiro. Il colpo è goffo, la traiettoria drammatica. Davanti a lui Sepp Maier protegge la porta con le mani conficcate in un paio di guanti da clown. E l’ex numero uno della nazionale tedesca deve impegnarsi a fondo per lasciare che la sfera si strofini contro la rete. Helmut Kohl alza le braccia al cielo e abbozza un’esultanza. Intorno a lui tutti ridono a crepapelle. Qualcuno in maniera sincera. La maggioranza per rispetto alle istituzioni. Poco dopo la voce del cancelliere riempie il ritiro della nazionale in vista di Italia 90. Perché lui è lì per fare il suo in bocca al lupo alla squadra. E per presentare una nuova iniziativa del suo governo. È sicuro che basterà scrivere sulle divise Keine Macht den Drogen, ossia “nessun potere alle droghe”, affinché i ragazzi riescano a stare lontani dal pericolo. Dopo altri sorrisi assortiti Kohl si siede a colazione con la squadra. “Questi Mondiali italiani saranno straordinari per cento motivi – dice prima di risalire a bordo del suo elicottero militare – ma per noi sono fin d’ora straordinari anche quelli che seguiranno. Nel ’94 negli Stati Uniti ci sarà in campo una Germania sola: lo sport saprà certo tenere il passo della politica, anzi della storia“. Sì, perché il muro di Berlino ha smesso di dividere Berlino Est da Berlino Ovest già dal 1989, ma bisognerà aspettare il 3 ottobre del 1990 per la riunificazione ufficiale della Germania. Ma in attesa dell’appuntamento con la storia, il Mondiale italiano è già carico di significati.

“A chi ha giocato due finali di fila si chiede di non perdere la terza” spiega Lothar Matthäus. Ed è vero. Perché dopo le sconfitte contro l’Italia nel 1982 e l’Argentina nel 1986, tutti hanno paura di arrivare ancora una volta fino in fondo per poi osservare gli altri alzare il trofeo. Ma c’è anche un’altra missione che la nazionale sente il bisogno di portare a termine: aiutare la Bundesliga a crescere. Per farlo c’è un solo modello da seguire. E per una volta è quello italiano. In una specie di emigrazione al contrario, sette giocatori della Mannschaft sono finiti a giocare in Serie A. E non la smettono un attimo di sottolineare l’abisso che c’è fra i due campionati. “A chi gioca in Italia vendendo da fuori dobbiamo dimostrare che la vera forza dei club milionari siamo noi stranieri – spiega l’interista Matthäus – Vorrei convincere la gente di qui che che il nostro calcio, quello ce si gioca in Italia voglio dire, è davvero il migliore al mondo e non solo il più pagato”. Qualche giorno dopo il commissario tecnico Franz Beckenbauer si presenta davanti alle telecamere ed è ancora più esplicito. Dice che non c’è un solo ambito in cui la Bundesliga riesca a tenere il passo della Serie A. Non per quanto riguarda la tattica, non per quanto riguarda l’organizzazione, non per quanto riguarda il volume di affari. Kaiser Franz, tuttavia, ostenta sicurezza. Ripete che la Germania può battere chiunque, che questa può essere davvero la volta buona. Lui, comunque, il 9 luglio dirà addio alla nazionale. Qualsiasi cosa accada.

Lo aspettano giornate su un altro prato verde, quello del golf, in attesa di una nuova chiamata, dell’ennesima sfida della sua carriera. La Federazione si era mossa già da tempo, annunciando il passaggio di consegne. La panchina della Germania andrà a Berti Vogts, un altro degli eroi che nel 1974 piegarono il totaalvoetbal dell’Olanda di Cruyff. Per il suo secondo e ultimo assalto alla Coppa del Mondo Beckenbauer ha deciso di tirare dritto per la sua strada. Dell’undici titolare che 4 anni prima aveva perso in finale contro l’Argentina sono rimasti in tre: Andreas Brehme, Thomas Berthold e Lothar Matthäus. Il sistema di gioco, invece, è più o meno lo stesso. Si parte da un 3-5-2 con Augenthaler libero e Kholer e Buchwald come centrali. I due esterni, Berthold a destra e Brehme a sinistra, hanno il compito di spingere ma anche di abbassarsi fino a formare una difesa a 5 in fase di non possesso. In mediana Matthäus gioca davanti alla difesa in modo da assicurare copertura, strappi in velocità, impostazione e una certa libertà per gli altri due centrocampisti, Littbarski con i suoi dribbling a orologeria, e il neojuventino Hässler. In avanti Rudi Völler e Jürgen Klinsmann sono chiamati a sdoppiarsi: sono i finalizzatori, ma anche i primi difensori della squadra. In fase di non possesso devono pressare i portatori di palla avversari chiudendo tutte le linee di passaggio. In costruzione, invece, svariano su tutto il fronte, partecipano alla manovra, dialogano fra loro e creano spazi per gli inserimenti. Ma ciò che rende particolare la Germania Ovest del 1990 è la compattezza dello spogliatoio.

“Adesso siamo più uniti – spiega Matthäus dal ritiro – non non ci sono più polemiche e rivalità come in Messico o come in Spagna, quando comandavano Rummenigge e Breitner e io vidi la finale dalla fila 55 della tribuna, proprio accanto ai giornalisti italiani, anche se stavo meglio di molti giocatori che stavano in campo, tra cui Rummenigge e Stielike“. E ancora: “Ora siamo contenti insieme, sono amici anche quelli del Bayern e del Colonia. Simpatici? Non m’interessa, non è con la simpatia che si si vince il Mondiale“. Il girone è piuttosto facile: Emirati Arabi Uniti, Colombia e Jugoslavia. Così l’esordio contro la squadra di Ivica Osim assomiglia molto a uno spareggio per il vertice. “Non voglio fare paragoni con la squadra che vinse nel 1974 – dice Beckenbauer durante la conferenza stampa della vigilia – quello era un tempo meraviglioso per il calcio tedesco, ma oggi noi di allora non faremmo una bella figura con questi di oggi”. Tutti gridano all’esagerazione. Tutti resteranno stupiti. La Germania vince 4-1, grazie anche a due splendidi gol di Matthäus. Prima il numero 10 riceve spalle alla porta, si libera di un avversario, si gira e dalla lunetta lascia partire un sinistro che si infila sotto la traversa. Poi riceve poco prima del cerchio di centrocampo e pigia sull’acceleratore e da fuori area, stavolta con il destro, buca il portiere avversario.

“Sono molto contento di aver segnato – racconta Matthäus – ma io non sono un bomber, io mi sacrifico per la squadra”. Le altre due partite servono solo per fare numero: contro gli Emirati Arabi Uniti la Germania vince 5-1, qualificandosi con una giornata d’anticipo, mentre con la Colombia finisce 1-1. La sfida più importante va in scena agli ottavi. Perché Germania-Olanda assomiglia molto da vicino al derby di Milano. Gullit contro Matthäus, Brehme contro Rijkaard. Van Basten contro Klinsmann. Nel ritiro della Germania i nervi cominciano a essere tesi. Völler e Matthäus hanno un acceso diverbio durante un allenamento. “Rudi teneva troppo il pallone – minimizza Lothar – allora gli ho gridato: guarda che così puoi giocare nella Roma”. Beckenbauer, invece, continua a spargere ottimismo: “Gli olandesi li conosco bene, come la mia squadra. Li rispettiamo, perché il nostro successo del 1974 e quello dell’Italia del 1982 insegnano che non sempre una prima fase negativa ti taglia fuori, comunque penso che vinceremo noi, il contrario sarebbe sorprendente”. Eppure due anni prima le cose erano andate diversamente. Perché Germania e Olanda si erano affrontati nella semifinale degli Europei del 1988. E a spuntarla, grazie a un gol di Van Basten a 2’ dalla fine, erano stati proprio i tulipani. “Vorrei affrontare la Germania – aveva spiegato Gullit prima del sorteggio – perché contro i tedeschi la più recente tradizione è dalla nostra parte. E poi con avversari del genere tutti si batteranno al massimo”. La partita è molto nervosa. Dopo una ventina di minuti Völler e Rijkaard si affrontano in un doppio duello. Volano spinte, insulti e anche uno sputo. L’arbitro li manda fuori entrambi. Succede tutto nella ripresa. Klinsmann e Brehme portano sul 2-0 la Germania, Koeman accorcia inutilmente su rigore a 2’ dalla fine. Per i tedeschi è la partita della svolta, quella della consapevolezza. Qualcuno dice che è la Germania più forte di sempre. Altri cominciano a dare ragione a Beckenbauer. Forse la sua squadra campione del mondo del 1974 avrebbe fatto una figuraccia contro questa Germania Ovest.