Ridammi mio figlio. La frase suona dolorosa e cupa all’indirizzo di Rita. Dall’altra parte della porta un’altra donna. È straniera, parla un’altra lingua. Lei quel figlio che rivuole indietro lo ha perso per sempre. Ha saputo solo dopo la sua morte che era il compagno del figlio di Rita.
Ho un ricordo confuso di questa storia, raccontata tanto tempo fa nel film di Claudio Cipelletti Due volte genitori, prodotto da Agedo, l’associazione di genitori e amici di persone Lgbt+. Ma ricordo che quel ragazzo non riusciva a fidarsi di sua madre. Ed è morto senza averle mai detto chi fosse davvero. Aveva paura. Che il condizionamento sociale – in una sola parola: l’omofobia – fosse più forte dell’amore stesso.
Non è l’unico caso. Conosco altre persone che vivono così. Luca (nome di fantasia) è una di queste. Lavora in ospedale. È uno stimato professionista. I suoi non sanno che è gay. I suoi non sanno che si è innamorato, da qualche tempo. Non vuole dirglielo. Ha paura. Lavora in una città diversa da quella in cui vive la sua famiglia d’origine. Nemmeno 80 chilometri. E ogni volta che torna a casa, quel passo indietro. A prima della felicità. Ne abbiamo parlato in chat. “Ma non ti pesa doverti nascondere?” gli ho chiesto, una volta. Non posso sapere a cosa potrebbe andare incontro, mi ha risposto. Meglio così. Meglio che non si sappia.
Quando si pensa all’omo-transfobia, ai discorsi d’odio contro le persone Lgbt+, si crede che sia qualcosa che nasce e si agita fuori dalla “normalità”, lontana dal quotidiano. Dalla dimensione, così rassicurante, del tetto domestico. E invece non è così. Essa può colpire davvero chiunque. Può colpire anche i genitori di ragazzi e ragazze Lgbt+. E scava solchi profondi, procura ferite a volte insanabili. Miete vittime, quest’odio, in entrambi i lati della “barricata”. Padri e madri e figli.
Gianfranca Saracino è una mamma Agedo. Pugliese, il sorriso buono e coinvolgente. Ha due gemelle. Una di loro un giorno fa coming out. La sua reazione, all’inizio, non fu bella. “Non ho mai smesso di voler bene un solo istante a mia figlia, eppure il condizionamento sociale ha offuscato la mia mente. Come un’interferenza“. Nel film di cui ho accennato, Cristina glielo rinfaccia pure. “Non è che vi siete resi conto di quello che mi avete fatto”: sembrano accuse taglienti, le sue.
No, non se ne erano resi conto Gianfranca e il marito. “No, il fatto di averti tolto fiducia nelle tue stesse scelte… questo non lo conoscevo” risponde lei. I loro occhi per un attimo si abbassano. Sembra esplodere la rabbia. Poi, invece, madre e figlia si ritrovano l’una nelle braccia dell’altra. La ferita si è ricomposta. Il solco non c’è più, lascia il posto alle cicatrici della memoria.
“Se a me avessero detto ‘tu sarai madre, partorirai dei figli, maschi o femmine, che potranno essere etero o omosessuali‘ l’impatto con questa cosa sarebbe stato completamente diverso”: a dirlo è Rita De Santis – sì, quella Rita – già presidente di Agedo. E centra il punto: educazione e consapevolezza. Smettere di trattare le persone Lgbt+ come sporchi segreti o guastafeste nella rappresentazione ideale della famiglia “tradizionale”. Un modello che, di per sé, non è garanzia di successo genitoriale e di felicità. Un modello che obbedisce al “pensiero unico”, questo sì, di chi non riesce ad accettare che la vita accada. E che questa riguardi anche le persone Lgbt+.
Per queste ragioni serve un lavoro culturale, a cominciare proprio da scuola e famiglia. Non per mandare in galera chi pensa che la famiglia è solo “padre, madre e figli”. Ma per far capire a queste persone che quell’aspettativa potrebbe essere disattesa dalla realtà dei fatti. Per spiegare che sì: si può avere un figlio o una figlia al di fuori da quella rappresentazione. E che se questo avviene l’odio, il silenzio, il rancore non possono essere un antidoto. Queste cose sono semmai un veleno che le famiglie le logora.
Una buona legge contro l’omo-transfobia deve lavorare su questo piano. È una questione di salute sociale. La famiglia, quella che ama definirsi “tradizionale”, può essere luogo privilegiato della violenza. Il ddl che sarà discusso in Parlamento è un bivio, in tal senso. Ci pone di fronte a una scelta: essere complici di certi abusi o no.
Essere favorevoli ad una buona legge significa essere dalla parte di chi i propri figli li abbraccia. Fare in modo che il muro del silenzio si sgretoli. Perché nessuno bussi un giorno alla porta di uno sconosciuto. E richiedere indietro quella fetta di vita che si è persa quando ormai è troppo tardi.