Cultura

Coronavirus, la pandemia raccontata da Franco “Bifo” Berardi tra tenerezza, rabbia e provocazioni

"Fenomenologia delle fine" (Not, Nero Edition) è l'ultimo libro del "filosofo e agitatore culturale" che raccoglie le cronache pubblicate nelle scorse settimane sul sito della casa editrice. All'interno non solo analisi sociopolitiche della contemporaneità, ma anche ricordi del passato. Senza dimenticare le invettive provocatorie sul "perché abbiamo scelto di non ribellarci"

di Alice Diacono

Tenerezza. E’ la prima parola che viene in mente parlando dell’ultimo libro di Franco “Bifo” Berardi, composto di tre parti: la prima, Cronaca della psicodeflazione, è in, buona sostanza, la sua personale e intima cronaca dello scoppio della pandemia e del lockdown; la seconda, chiamata Sei meditazioni sulla soglia, raccoglie una serie di riflessioni e chiavi di lettura sul virus e le sue conseguenze, e l’ultima, Post scriptum, ci riporta invece gli scritti del filosofo nella “Fase 2” e il ritorno alla cosiddetta normalità.

Il suo diario mi ha fatto compagnia durante la quarantena. Una cosa che aspettavo e leggevo con piacere e a tratti divertimento, una di quelle piccole certezze che mi hanno aiutata a scandire il tempo e soprattutto a provare a dargli un’interpretazione plausibile. Usciva ogni dieci giorni sul sito di Not, Nero Edition, che poi è anche la casa editrice che lo ha reso un libro e lo ha pubblicato con il titolo Fenomenologia della fine.

Tenerezza, è la parola che mi ha suscitato questa prima parte, perché diversamente dalla maggior parte dei suoi scritti, qui Franco Berardi, accanto alle analisi socio-politiche dei fatti e della situazione globale, racconta ciò che sta accadendo intorno giorno per giorno in maniera autobiografica, quasi che lo sgomento provocato dagli avvenimenti epocali e le sensazioni di vuoto sospeso del lockdown, abbiano permesso il fiorire di ricordi e l’emergere dal passato di personaggi e episodi accaduti nella sua lunga e avventurosa vita.

Come quando ci racconta che per la prima volta, l’11 di marzo non può andare alla commemorazione della morte di Francesco Lorusso, il militante di Lotta Continua ucciso da un carabiniere nel 1977, e quindi non può rivedere i suoi vecchi compagni.

O quello in cui, leggendo la notizia del team di medici mandato in Italia dal primo ministro albanese Edi Rama, ci racconta di quando si conobbero a Parigi nel ‘94 e quando, un anno dopo, Rama diventò Ministro della Cultura in Albania, lo invitò ad andare a trovarlo ospitandolo in un contesto molto pittoresco, insolitamente bohémien per un ministro, e soprattutto estremamente povero.

O ancora quello in cui una mattina, aprendo La Repubblica, vede la foto di un suo vecchio compagno di liceo, il più bello della classe, a cui piacevano un sacco le ragazze “infatti voleva fare il ginecologo diceva lui, e lo ha fatto davvero, pensa che scemo.”, tra le foto dei medici morti facendo il loro lavoro durante la pandemia.

Bifo, come tutti, sperimenta la nuova quotidianità: le file fuori dal supermercato, le uscite per andare in edicola e in farmacia, il centro della sua città, Bologna, completamente vuoto e deserto, il silenzio di Via Zamboni in cui “Non c’e nessuno in questa strada dove dal XII secolo in primavera si affollano e si corteggiano studenti e studentesse”.

Si interroga e come sempre analizza il potere, il lavoro, l’economia capitalista, il ruolo della tecnologia e dell’informazione in tutto questo; il destino della più grande potenza mondiale, gli Stati Uniti, della finanza e della politica, ormai agonizzanti. Come molti, per un attimo si illude che qualcosa possa cambiare e che il messaggio mandato dal virus alla società umana come un segnale d’allarme, possa finalmente essere ascoltato. Lo fa come al suo solito con uno stile profetico, incalzante, a tratti illuminato e a tratti distopico, con frasi-lampo come: “L’erotico scacci il ricordo triste dell’economico”. E ci rammenta quanto la demografia sia spesso sottovalutata nell’analisi della nostra società e che un paese senza giovani è un paese senza eros, senza la spinta mordente ad agire e a modificare la realtà.

E a proposito di questo, nel Post Scriptum, la tenerezza svanisce per lasciare spazio alla rabbia, alla delusione di chi aveva sperato che fosse la volta buona che cambiasse qualcosa, al disorientamento nel vedere che tutto l’accaduto viene socialmente rimosso e messo da parte perché tutto ricominci come prima se non peggio. Qui, in un testo dal tono provocatorio intitolato Il sistema immunitario della generazione protodigitale, pubblicato il 28 maggio su Effimera, Bifo fa una domanda che lui stesso, ha definito “brutale, cattiva, maledetta” (lo ha fatto presentando il libro di Alice Diacono “Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento” ndr), e che era precisamente questa: “E quasi del tutto provato che il virus non provoca effetti catastrofici su chi ha meno di quaranta anni. Perché avete accettato di essere così responsabili? Perché avete accettato il confinamento solo per evitare problemi al nonno? Perché non vi rendete conto del fatto che voi siete la vittima sociale, che vi stanno sfruttando come schiavi? Perché non vi ribellate con tutti gli strumenti disponibili?”

Apriti cielo. L’articolo ha scatenato un interessante dibattito (per non dire “accesa polemica”) tutto basato sullo scontro generazionale tra i boomers – i figli del baby boom e del miracolo economico che poi hanno fatto il ‘68 e tutte le “rivoluzioni” – e i millennials, ovvero noi, tutti quelli nati dagli anni ‘80 in poi, cresciuti a Mediaset e Internet e arrivati quando il banchetto della storia era già finito.

Senza farlo apposta, la mia risposta è stata molto simile a quella data dall’attivista e dottoranda in scienze sociali all’Università degli studi di Padova, Mackda Ghebremariam Tesfau’, pubblicata qualche giorno dopo sempre su Effimera, e intitolata inequivocabilmente “In risposta a Bifo”.

Riassumendo: perché lo abbiamo fatto? Perché non siamo scappati dalle nostre case insieme ai nostri amici e ci siamo rifugiati in comuni idilliache a praticare l’amore libero? Non per sottomissione, ma per un senso di responsabilità verso la nostra comunità, verso i più deboli, perché, citando la Tesfau’, “questa non è la nostra sconfitta. Questo è il nostro marchio. Non stiamo chiedendo allo stato di essere qualcosa che (al momento) non è, stiamo materializzando un’alternativa. Transgenerazionale e transpersonale. Intersezionale e consapevole.” E non perché siamo dei mollaccioni e “sensibilotti” a cui è stato consegnato un mondo perfetto su un piatto d’argento ma sono stati troppo choosy per cogliere l’occasione. Piuttosto il contrario.

Non è un caso che le nostre risposte avessero così tanti elementi in comune: entrambe siamo millenials, entrambe femministe, entrambe parte di quel precariato cognitivo che cerca di sopravvivere in città sempre più care e claustrofobiche.

L’invettiva di Bifo era chiaramente provocatoria ed è pienamente riuscita nel suo intento. Come sempre però il “filosofo e agitatore culturale”, come viene definito da Not, ci lascia con un’ esortazione e una promessa di rivoluzioni felici anche in mezzo a quello che è sembrato l’inizio della fine.

La fine di cosa, quindi? “Questo dipende da noi, questo dipende da te. Se sapremo creare le condizioni della solidarietà sociale, se sapremo dotarci di strumenti adeguati per la difesa e per l’attacco, se sapremo elaborare un modello adeguato di piena applicazione delle tecnologie produttive, allora sarà la fine della proprietà privata, dell’astratto dominio del capitale, dello sfruttamento e della miseria. Se non sapremo creare queste condizioni allora la fine di cui dovremo parlare è proprio la fine dell’umanità. Dell’umanità come valore condiviso, come sensibilità, intelligenza e comprensione, ma anche dell’umanità come specie: la fine dell’animale umano sulla terra”.

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