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5G, l’alleanza con gli Usa e la partita della rete unica: cosa c’è dietro la decisione di Tim di escludere Huawei dalla lista dei fornitori

L'esclusione, fanno sapere in modo informale dalla società, non è legata a "una scelta politica” ma “piuttosto di una scelta industriale in linea con il nostro approccio di diversificazione dei fornitori”. Tuttavia è nota l'ostilità statunitense verso le tecnologie di telecomunicazioni prodotte dai cinesi. Che la moral suasion abbia avuto i suoi effetti su Tim che fra i suoi soci ha anche il fondo statunitense Elliot, il cui contributo è stato sostanziale per arginare l'ingombrante azionista francese Vivendi?

Tim muove le sue pedine nel tentativo di sbloccare la partita per la rete unica a banda ultralarga. E intanto rafforza l’asse di alleanze statunitense: dopo aver siglato un’intesa con Google per il cloud, la compagnia telefonica ha escluso il colosso cinese Huawei dalla lista dei fornitori ammessi alla gara per le apparecchiature 5G. “Non si tratta di una scelta politica”, hanno evidenziato in maniera informale dalla società, ma “piuttosto di una scelta industriale in linea con il nostro approccio di diversificazione dei fornitori”.

Tuttavia è nota l’ostilità statunitense verso le tecnologie di telecomunicazioni prodotte dalle due aziende cinesi Huawei e Zte, molto presenti in Italia. Dall’altro lato dell’Oceano, le apparecchiature prodotte dalle due aziende sono state bandite dalle gare indette dalla pubblica amministrazione a stelle e strisce perchè, secondo l’amministrazione Trump, mettono a rischio la sicurezza nazionale favorendo lo spionaggio internazionale. Non a caso del resto, da oltre un anno e mezzo, gli Stati Uniti hanno avviato un pressing su Roma invitando il governo a ripensare la strategia sul 5G di cui è Huawei è uno dei protagonisti con sperimentazioni a Milano, Bari e Matera e progetti-vetrina che rappresentano un unicum nel Vecchio Continente. Che la moral suasion abbia avuto i suoi effetti su Tim che fra i suoi soci ha anche il fondo statunitense Elliot? E cioè il gruppo del miliardario Paul Singer, il cui contributo è stato sostanziale per arginare l’ingombrante azionista francese Vivendi.

Difficile a dirsi. Ma è un fatto che d’ora in poi i fornitori 5G di Tim, sia in Italia che in Brasile, saranno Cisco, Ericsson, Nokia, Mavenir e Affirmed Networks, azienda recentemente acquistata da Microsoft. La scelta è peraltro in linea con quanto sta accadendo in altri Paesi europei. In Gran Bretagna, ad esempio, il premier Boris Johnson si è detto pronto a bandire Huawei dalla rete 5G inglese. In Francia, invece, pur non vietando espressamente l’uso di apparati di telecomunicazione cinesi, il responsabile dell’agenzia di cybersecurity francese Anssi, Guillaume Poupard, ha inviato gli operatori a prediligere fornitori europei e statunitensi.

In questo delicato contesto internazionale, Tim gioca le sue carte con l’obiettivo di chiudere a proprio vantaggio la partita della rete unica. Con l’aiutino statunitense. L’amministratore delegato Luigi Gubitosi ha messo in piedi una complessa operazione finanziaria con il fondo americano Kkr per far emergere il valore della rete in rame. La questione è particolarmente rilevante perché si tratta di quella parte di network che raggiunge direttamente le case degli italiani e che sostituita con la fibra ottica consentirebbe il veloce sviluppo della fibra in tutto il Paese. Per di più a costi contenuti e senza le autorizzazioni che, invece, è costretta a richiedere la rivale Open Fiber per gli scavi di posa della fibra.

L’idea è che la rete secondaria di Tim possa diventare oggetto di investimento da parte dell’alleato Fastweb e magari anche di Cassa Depositi e Prestiti che è socia sia di Tim che di Open Fiber. Questa soluzione potrebbe essere un primo step per fondere poi la rete di Tim con quella di Open Fiber, di cui è azionista anche Enel. Il punto è che non c’è ancora un accordo fra i diversi soggetti in campo sulle valutazioni del network di Tim e di quello di Open Fiber. Un passo in avanti è stato fatto con una recente offerta all’Enel da parte del fondo australiano Macquarie che ha valutato oltre 7,5 miliardi l’intera Open Fiber. Ciò non significa però che l’Enel sia disposta a cedere la sua quota cui è interessato anche fondo britannico Wren House Infrastructure della Kuwait Investment Office. Inoltre Tim ambisce ad avere la maggioranza della nuova società unica della rete. Magari con Cassa Depositi e Prestiti che incrementa la sua partecipazione nell’azionariato dell’ex monopolista pubblico. Questa soluzione non piace però ad una parte del governo e del parlamento, non è gradita a Bruxelles e rischia di creare problemi di antitrust. Segno che la partita è ancora aperta.