Potremmo restare in stato di emergenza fino a tutto il 2021, a quanto fanno sapere fonti di governo. Se così fosse, continueremmo a pagare i vent’anni di ritardo che l’Italia si porta dietro nelle infrastrutture tecnolgiche e nello smart working, voci che contribuiscono a schiaffare il nostro Paese al quartultimo posto in Europa per digitalizzazione dell’economia e della società, appena prima di Romania, Grecia e Bulgaria. Sono i temi che che affronta, con inchieste e approfondimenti, il mensile Fq Millennium, diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 11 luglio.
“Chi ha ucciso la banda larga?”, recita il titolo di copertina, e una lunga inchiesta di Fiorina Capozzi fornisce le risposta. Innanzitutto le liti fra i grandi operatori Telecom (privata) e Open Fiber (pubblica, controllata da Enel e Cassa depositi e prestiti), impegnate in un cablaggio a banda ultralarga di oltre settemila Comuni italiani annunciato dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi nel 2016 e oggi già in ritardo di almeno tre anni sulla tabella di marcia. Poi la lentezza dei Comuni nel rilasciare le autorizzazioni necessarie a posare i cavi. Ma scavando – appunto – ulteriormente, il ritardo nella connessione veloce diventa ventennale perché procede in parallello con un errore originario: la modlità di privatizzazione di Telecom, nel 1997, messa sul mercato insieme alla rete, e poi man mano impoverita per investimenti, dipendenti, valore di Borsa, ruolo strategico nazionale e internazionale.
Ora la pandemia fa venire a galla le colpe politiche e imprenditoriali di quegli anni. Prima del Covid-19 appena 570 mila di italiani praticavano lo smart working (eravamo 19esimi in Europa e sotto la media Ue), quasi da un giorno all’altro sono esplosi a 8 milioni, alle prese con un mondo sconosciuto e per lo più messi a fare un brutale e improvvisato telelavoro casalingo privo di regole e tutele, aggravato da asili e scuole chiuse. Eppure le tecnologie e le conoscenze le avevamo, anche in questo caso, da vent’anni. E avevamo persino un legge sullo smart working, del 2017, fortemente voluta dall’ex ministro Pd Cesare Damiano.
Anche su questo fronte, FQ MillenniuM indaga su chi si è messo per traverso. In particolare imprenditori e manager, pubblici e privati, responsabili nel 50% dei casi del niet al “lavoro agile”, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico, soprattutto per il timore di perdere il controllo diretto sui dipendenti. Poi c’è il buco nero della Pubblica amministrazione – che come cittadini paghiamo due volte, per i maggiori costi e la maggiore burocrazia cartacea – ferma al palo nonostante la legge Madia, anche questa del 2017, prevedesse il 10% di dipendenti pubblici a casa nel giro di tre anni.
Ma come funziona, davvero, lo smart working, secondo molti osservatore un lascito dell’epidemia destinato a durare, perché conveniente sia per le aziende che per i lavoratori, oltre che per l’ambiente, la vita personale e familiare, il funzionamento delle città? Lo racconta in presa diretta un reportage di Chiara Busini dal quartier generale della Siemens di Milano, dove ci sono solo 1200 postazioni di lavoro per 1800 dipendenti, non esiste il cartellino da timbrare e la giornata lavorativa può essere organizzata dal singolo dipendente in base alle proprie esigenze, per esempio sulle necessità di accudimento dei figli. Diritti e doveri non sono lasciati al caso o ai rapporti di forza del momento, ma da specifici accordi sindacali, compreso il diritto alla disconnessione.
Tutto bene allora? Non proprio, perché man mano che ci si allontana dalle aziende più grandi e dai rapporti di lavoro più garantiti, lo smart working può trasformarsi in un nuovo cottimo tecnologico, avverte Marta Fana nella sua analisi, come accadeva tempo fa nel tessile. Nel quale fra l’altro gravano sul lavoratore nuovi costi, come il computer, lo smartphone, la connessione, l’aria condizionata… Per non parlare del tema del controllo, con il rischio che webcam aziendali e tracciamento dell’attività online da parte dei “capi” entrino fin dentro casa nostra.