Lunedì alcuni familiari delle vittime riuniti nel comitato Noi denunciamo del Covid-19 invieranno una lunga e dettagliata lettera a Ursula Von der Leyen e a Ròbert Ragnar Spanò. La missiva, il cui testo verrà diffuso nei prossimi giorni, ha uno scopo preciso: chiedere la supervisione delle più alte cariche continentali - politiche e giuridiche - sulle indagini in corso in Lombardia che puntano a ricostruire la responsabilità politica delle scelte fatte durante l'emergenza
La gestione dell’emergenza coronavirus in Lombardia può aver configurato il reato di crimine contro l’umanità. Lo sostengono alcuni familiari delle vittime del Covid-19, che lunedì invieranno una lunga e dettagliata lettera alla presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, e al presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, Ròbert Ragnar Spanò. La missiva, il cui testo verrà diffuso nei prossimi giorni, ha uno scopo preciso: chiedere la supervisione delle più alte cariche continentali – politiche e giuridiche – sulle indagini in corso in Lombardia. Indagini scattate anche grazie alle centinaia di denunce legali presentate ai pubblici ministeri in tutta la regione. A presentarle sono loro: i familiari delle vittime riuniti nel comitato “Noi Denunceremo“.
Negli ultimi mesi gli uffici giudiziari lombardi hanno cercato di ricostruire le responsabilità politiche nella gestione dell’emergenza. La procura di Bergamo, una delle prime a indagare, ha aperto un fascicolo ipotizzando l’epidemia colposa. Ora i familiari delle persone che a causa di quell’epidemia sono morte si rivolgono all’Europa. E, come elementi che farebbero ipotizzare i crimini contro l’umanità, puntano i riflettori su tre scelte operate dalle autorità pubbliche. Tre decisioni che avrebbero esposto la cittadinanza a un maggiore rischio di contagio.
Quali? Innanzitutto la riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, dopo che lo stesso si rivelò essere uno dei più importanti focolai del nuovo coronavirus. Quindi, la decisione di mantenere aperte le attività produttive tra Alzano Lombardo e Nembro, nella Bergamasca, e la zona di Orzinuovi nel Bresciano, nonostante l’Istituto Nazionale della Sanità avesse consigliato all’esecutivo di chiudere anche quelle aree già dal 2 marzo. Chi decise di non creare le zone rosse in quei luoghi? Da settimane i pm raccolto testimonianze sia a livello regionale che centrale: anche il premier Giuseppe Conte è stato ascoltato come persona informata sui fatti. Prima di lui davanti ai pm sono andati il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, e il suo assessore al Welfare, Giulio Gallera.
I familiari delle vittime mettono sotto osservazione di Bruxelles e Strasburgo anche la gestione da parte delle Ats dei pazienti ricoverati, molti dei quali spostati dagli ospedali alle Rsa, nonostante già si conoscesse il livello di mortalità del virus, in particolar modo tra le fasce di popolazione più anziana. Per il comitato, infatti, spostare pazienti positivi al coronavirus in ambienti dove al personale medico non era stati forniti i dispositivi di protezione personale, come mascherine o guanti, è stata una mossa che, invece di limitare la propagazione del virus, ne avrebbe aumentato i contagi, condannando molti pazienti alla morte.
Gli articoli citati nella lettera, a cui fa appello il comitato ipotizzando i crimini contro l’umanità, sono l’1, il 2 e il 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riguardano il diritto alla dignità umana e alla vita, nonché all’integrità fisica e psichica. Inoltre, viene citato anche l’articolo 32 della Costituzione italiana, secondo cui “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il Fatto Quotidiano ha raccontato la storia di questo comitato fondato da Luca Fusco, commercialista di Brusaporto, in provincia di Bergamo. Il covid gli ha portato via il padre. Lui ha chiesto al figlio di aprirgli una pagina su facebook: in poche ore ha raccolto le adesioni di 55mila persone. Tutti, ma proprio tutti, avevano pagato un debito familiare con l’epidemia: chi ha perso un padre, chi una madre, chi entrambi. Storie terribili e tutte simili: malati abbandonati, familiari senza tamponi, nessuna assistenza domiciliare e difficoltà a ricoverare i casi gravi. E poi quei sacchi neri con gli effetti personali dei morti che spesso non tornavano nelle mani dei parenti: si perdevano in qualche magazzino. Il 10 giugno scorso il comitato ha depositato in procuna decine e decine di denunce: lo hanno chiamato il D-Day. Dentro a quegli atti giudiziari c’erano elencate le mancanze e le negligenze che hanno aperto la porta al coronavirus. “Vogliamo che la magistratura indaghi sulle falle nella linea di comando le falle non ci sono state tra gli operatori sanitari, medici e infermieri, ma nella linea di comando, e non ci fermeremo fino a quando non otterremo verità e giustizia”, diceva Fusco il giorno del D-Day. Oggi ha deciso di rivolgersi a Bruxelles e a Strasburgo.