Sgomberate la scrivania da oggetti e libri inutili. Perché dovete far atterrare un’astronave aliena come Gli Schifosi di Santiago Lorenzo (Blackie Edizioni). “Con la sua povertà autoapprovvigionata avrebbe comprato tempo, perché passava momenti molto più belli al mercato delle ore che a quello della frutta e verdura. Gli offriva un prodotto migliore”. L’acquirente del tempo si chiama Manuel ed è un ragazzo sveglio, piccoletto e cocciuto, uno che si sbatte a cercare lavoretti (sottopagati) fin da quando ha 11 anni. Trascurato dai genitori, per campare è costretto ad un precariato realista ed indecente. Tutto bene, anzi male, fino a quando va pure peggio. Dal tugurio strapagato dove vive in affitto, Manuel sta uscendo dal portone e rocambolescamente per difendersi è costretto a ferire con un cacciavite (il suo amuleto) un poliziotto che si era rifugiato nell’androne a causa di una manifestazione che si sta svolgendo in strada. In pochi istanti Manuel deve inventarsi un piano di fuga da tutto e da tutti senza farsi più riconoscere o lasciare tracce. Scappa da Madrid, fresca di un inasprimento delle pene nel rapporto tra cittadino e forze dell’ordine, e si rifugia in una casa sfitta e disabitata nel paesino fantasma di campagna chiamato Zarzahuriel. Lo aiuterà lo zio che, letterariamente, ne racconterà le gesta attraverso una narrazione in prima persona tra il testimone casuale e il narratore omodiegetico e onnisciente. Primo pit stop. Gli Schifosi è un racconto, a suo modo, sul distanziamento sociale. Attenzione: non per via del Covid-19 (che qui manco sanno cosa sia, grazie a dio). Bensì nel mostrare un radicale allontanamento dalle persone e dalle merci che si fa, via via, sempre più cosciente e coscienza critica. C’è chi dice che la storia si ispiri a Thoreau, ma gli Schifosi non trasmette malinconica mestizia quanto invece un beffardo e cinico distacco rispetto a qualsivoglia rimpianto della “civiltà”. Costretto dalle circostanze esterne avverse, Manuel torna ad una sorta di stato brado (elettricità zoppicante, acqua gelida, pochi vestiti, lavaggi di corpo, capelli e denti alquanto saltuari, cibo semplice e nel tempo autoprodotto) per poi ritrovarcisi e rimanerci con anche una certa sincera felicità e fiera austerità. Sentimenti positivi che Manuel racconta nella telefonata giornaliera allo zio, e che questi ci riporta in tutta la sua fitta capacità descrittiva e linguaggio creativamente spregiudicato. Secondo e ultimo pit stop. Lorenzo non sembra avere modelli di scrittura alti da emulare, quindi si porta sul terreno delle nuove parole, codici, ritmo, pensiero. La sua lingua (tradotta crediamo con grande fatica e anche soddisfazione da Bruno Arpaia) è un caravanserraglio di stressati, ardimentosi e furiosi neologismi (a pagina 148 il record con esofaghevole, polmonante, mentecazzi, ridicoltura, sofferentose) che si inarcano, si compenetrano, si fondono con l’anima insurrezionale ed anticonformista del testo fino a giungere ad un unicum di rara, portentosa, anarchica originalità. Prima parte, quella della fuga e dell’isolamento, più costruttiva e introspettiva; seconda più distruttiva, travolgente e spassosa (quando Manuel si ritrova nel bel mezzo del nulla con i vicini chiassosi e schifosi chiamati “caciarri” l’autore si sbizzarrisce nel suo “odio sociale”). Con un dilatato twist finale che lascia a bocca aperta. Lorenzo vive realmente isolato dal mondo in una fattoria presso Segovia. Voto: 8