LE GRATITUDINI - 3/3
Abituati a quantitative recenti lunghezze tendenzialmente mostruose, l’asciuttezza de Le gratitudini (Einaudi) di Delphine De Vigan dà, vedendo esteriormente il volume, quasi un senso di istintivo spaesamento. Poi però quando arrivi in pochissimo tempo all’ultima pagina, la 149, anche solo per un istante, la domanda te la poni: tutto qui? De Vigan da una parte gioca facile a livello tematico, disegnando Mitchka, l’anziana signora che perde gradualmente l’uso della parola confondendo e rimescolando termini anche d’uso comune; dall’altro abbraccia la complicazione linguistica e lessicale sul piano della scrittura costruendo un testo che ogni due tre righe devia sulla parola confusa, sbagliata, sovrapposta dalla protagonista (lavoro mica da nulla, anche qui, per la traduttrice Margherita Botto). Poi c’è una trama succinta che è quella del ricovero improrogabile di Mitchka in una casa di cura, assistita prima da Marie, una vicina di casa che l’andrà a trovare, e da Jerome, un ortofonista che proverà a rallentare il deperimento neuronale dell’anziana. Aggiungiamo che la narrazione è affidata alle due voci di Marie e Jerome, e sottolineiamo che il romanzo non ha una vera e propria omogeneità di tono. Se inizialmente l’improvviso blackout di Mitchka sa di struggente e la descrizione spietata e lacerante dell’incombente ultima fase della vita fa gridare al miracolo letterario (l’illustrazione con poche rapide pennellate dell’ “inutilità” del “vecchio”, la sua involontaria e cruda partecipazione ad un sistema di “selezione” socio-economica), come si entra nella casa di cura per tessere il corpo centrale del racconto il romanzo precipita, devia, scarta in una masticazione risaputa dell’ultimo desiderio dell’anziana protagonista qui ancora (di nuovo? ma perché? Ma tra vent’anni retrodateremo tutte le storie?) legato alla sua sopravvivenza da bimba ebrea durante il nazismo. Va bene il monito del ricordo, che nulla vada mai dimenticato, però questa “invenzione” meramente di trama qui ammoscia, sgonfia, riduce ai minimi termini lo sforzo iniziale di allestire qualcosa di emotivamente e universalmente maestoso. C’è pure un finale che sembra addirittura un annaspante coup de theatre. Permetteteci, capita anche per i migliori: questo libro non ci convince. Voto: 5