Carcere a vita. “Fine pena mai” per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e per Rocco Santo Filippone, ritenuto dalla Dda espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Come più volte ha ripetuto in aula in questi giorni, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo non ha dubbi sulla loro colpevolezza. Le richieste di ergastolo sono state formulate dal procuratore capo Giovanni Bombardieri. Presente in aula anche del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho.
Bombardieri ha chiesto l’ergastolo per entrambi gli imputati del processo “’Ndrangheta stragista” accusati di essere stati i mandanti dell’omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994 sulla Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dello svincolo di Scilla. Per il solo Filippone, inoltre, la Procura ha chiesto altri 24 anni. I due boss rispondono anche di altri due agguati, contro altrettante pattuglie dell’Arma, consumati tra il dicembre 1993 e il febbraio dell’anno successivo: in entrambi i casi, per fortuna, non ci furono vittime.
Dopo aver ripercorso quasi tre anni di processo davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, quindi, il magistrato della Dda ha concluso oggi la sua requisitoria, iniziata lo scorso 30 giugno e durata cinque udienze durante le quali ha ricostruito le risultanze investigative che, nell’estate 2017, hanno portato all’arresto del boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano, già in carcere all’ergastolo, e del calabrese Rocco Santo Filippone.
Il pm, inoltre, depositerà nei prossimi giorni una memoria finale sull’inchiesta che, adesso, rischia di riscrivere un pezzo di storia dell’Italia aggiungendo, secondo gli inquirenti, un tassello di verità su quello che è stato uno dei momenti più bui del nostro Paese: quelle delle stragi che a colpi di bombe insanguinarono l’Italia tra il 1992 e 1994. Già al centro del processo celebrato a Palermo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra che si è concluso nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per boss, ufficiali dei carabinieri ed ex politici come Marcello Dell’Utri, il biennio al tritolo è divenuto oggetto anche del dibattito di Reggio Calabria. E anche per gli inquirenti calabresi alle stragi non parteciparono solo le organizzazioni mafiose. “Noi abbiamo vissuto una stagione stragista riferibile a un sistema criminale che va oltre le mafie“, ha detto oggi il pm.
Dietro la strategia stragista , per il procuratore aggiunto Lombardo, c’era “un comitato d’affari che comprende al suo interno ‘Ndrangheta, Mafia siciliana, politica collusa, pezzi di istituzioni e pezzi di servizi segreti. I pezzi di un sistema che incredibilmente convergono per rappresentare uno scenario che questa nazione non meritava di vivere né in quegli anni né in anni diversi”. Il pm ha fatto riferimento più volte al contesto politico che caratterizzava l’Italia nel periodo delle stragi. Non solo consumate ma anche tentate come il famoso “colpo di grazia” che il boss di Brancaccio, dopo gli attentati ai carabinieri da parte dei calabresi, aveva ordinato di dare al suo fedelissimo Gaspare Spatuzza: il mafioso avrebbe dovuto fare esplodere una Lancia Thema imbottita di tritolo e tondini di ferro nei pressi di un autobus che trasportava decine di carabinieri del servizio d’ordine dello stadio Olimpico durante Roma-Udinese. Quell’attentato, però, fallì per un difetto al telecomando. “Se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni”, hanno scritto i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo sulla Trattativa.
Quattro giorni dopo il fallito attentato all’Olimpico i Graviano, Giuseppe e il fratello Filippo, vennero arrestati a Milano: era il 27 gennaio del 1993. Solo 24 ore prima Silvio Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo. “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?”, si è domandato il procuratore aggiunto Lombardo durante il suo intervento. Più volte nel corso del processo, infatti, in aula è stata evocata la fase della fondazione di Forza Italia avvenuta nei mesi finali della strategia stragista di Cosa nostra.
D’altronde, il nome di Silvio Berlusconi è stato tirato in ballo davanti ai giudici dallo stesso Graviano. Il processo di Reggio Calabria ha guadagnato notorietà nei mesi scorsi perché è il procedimento in cui il boss che custodisce il segreto delle stragi ha deciso per la prima volta di aprire bocca per mandare una serie di messaggi trasversali. Durante una serie di udienze Graviano ha sostenuto di essere stato in affari con Silvio Berlusconi, grazie agli investimenti compiuti dal nonno a Milano negli anni ’70. Ha parlato di “imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. Ha invitato a indagare sul suo arresto, avvenuto al ristorante Gigi il cacciatore il 27 gennaio del 1994, per scoprire i veri mandanti delle stesse stragi.
“Non l’ho ringraziato formalmente Graviano ufficialmente per quello che ci ha detto nel corso dell’esame?Mi pare di si, perché ci ha spiegato che quel momento storico è un momento in cui la sua storia, la storia di Cosa nostra, la storia della ‘ndrangheta, procede di pari passo con la storia del movimento politico che verrà annunciato il 26 gennaio di quell’anno: Forza Italia”, ha detto il pm Lombardo. In aula il rappresentate della pubblica accusa ha letto alcune delle intercettazioni di Graviano in carcere. In particolare il pm si è soffermato sulle frasi del boss di Brancaccio che definisce “Silvio Berlusconi un traditore”. Quell’intercettazione – sottolinea Lombardo – “Graviano non l’ha mai smentita. Anzi, il 14 marzo 2017 parlando di Berlusconi ha aggiunto: ‘L’autore è lui, mi ha tradito per una questione di soldi’. Riconosco a Graviano che ha ragione quando dice: ‘Chi deve pagare insieme a me, che sta al di sopra di me?’. Ha ragione. Poi vediamo se la magistratura italiana avrà la forza di andare fino in fondo“.
Ritornando all’agguato in cui morirono i carabinieri Fava e Garofalo, grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e, soprattutto, all’immane lavoro degli investigatori che hanno ricostruito i fatti a distanza di 27 anni, oggi la Dda è riuscita a inquadrare quegli attentati, avvenuti a cavallo tra il 1993 e il 1994, durante le cosiddette “stragi continentali”. Facevano parte, in sostanza, della “strategia stragista” comune attraverso cui Cosa nostra e ‘ndrangheta volevano mandare messaggi allo Stato. L’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e gli altri due tentati omicidi, infatti, per il procuratore aggiunto Lombardo servivano a far capire che “Cosa nostra non era sola e che il ruolo della ‘ndrangheta non è stato secondario” nel braccio di ferro con lo Stato.
Ecco perché, secondo il procuratore aggiunto Lombardo, i due imputati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone non dovrebbero più uscire dal carcere: “Noi abbiamo vissuto una stagione stragista riferibile a un sistema criminale che va oltre le mafie. Arrivare a una verità piena è solo una questione di tempo”, ha detto il pm. Nella prossima udienza inizieranno le arringhe degli avvocati mentre il 21 luglio la Corte d’Assise, presieduta dal giudice Ornella Pastore, dovrebbe ritirarsi in camera di consiglio per emettere la sentenza di primo grado.