Ne parlano in continuazione. A molti non piace, eppure ne parlano; ad altri piace molto, ma forse si fa fatica a capire il perché. Il fatto è che Achille Lauro, arrivato ai trent’anni, è un artista che non ha praticamente sbagliato un colpo da quando ha cominciato a pubblicare dischi. Vediamo il motivo.

Sin dagli esordi rap-trap, venuto fuori dalla scena romana guadagnandosi la stima di antesignani importanti come Noyz Narcos e Marracash, Lauro è riuscito a sviluppare la naturale evoluzione della trap italiana, che nelle intenzioni parte dal rap ma poi trova la sua più compiuta realizzazione nel pop (segnalo questo articolo di Federico Leo Renzi, che spiega molto bene queste dinamiche, per chi volesse approfondire). Il pop di Achille Lauro però è molto più stratificato e complesso di quanto possa sembrare. Tutti vogliono portarlo sul proprio campo d’azione: a mio avviso, oggi, non c’è modo di etichettarlo.

C’è stato chi ha visto un movimento decisivo verso la canzone d’autore, dopo la pubblicazione del disco 1969 del 2019; non funziona, se si pensa ai cantautori classici, perché i testi di Lauro, uniti alla sola struttura armonico-melodica della canzone, non reggono e non vogliono reggere se isolati dal contesto, dall’arrangiamento e dall’attitudine in cui sono ovattati (anche in questo senso va letta la sua esibizione al Premio Tenco 2019).

Sono poca cosa presi così, mentre diventano elemento di un ingranaggio complesso se considerati nell’idea d’insieme. Non è certo il nuovo Vasco Rossi, per capirci: sia per l’intuizione del claim giusto in canzone, che rende Vasco unico in Italia, sia perché non ha ancora avuto il tempo necessario per costruirsi un immaginario autonomo, cosa che Vasco nel nostro Paese ha fatto meglio di tutti nel tempo.

Come per Vasco però, anche ad Achille Lauro sono serviti due Festival di Sanremo per calibrare meglio la propria potenza di fuoco e prendere la mira su cosa debba essere il suo progetto artistico. Con Rolls Royce nel 2019 giustapponeva un po’ alla rinfusa, ma mai in maniera insignificante, alcune icone festivaliere; con Me ne frego nel 2020 c’è stata la vera svolta pop, che ha amplificato la percezione del suo essere artista e sfruttato al meglio il piedistallo fornito dal Festivàl, come facevano un tempo i cantanti storici dello star system italiano.

Allora mi piace citare i due colleghi che hanno interpretato meglio l’Achille Lauro di Sanremo 2020, uno dei pochi artisti che negli ultimi anni ha usato davvero quel posto, invece di sottostare tacitamente, involontariamente e ingenuamente alla tautologia “Sanremo è Sanremo” e cantare quel palco, invece che la propria canzone. Il primo è Daniele Cassandro, che dalle pagine di Internazionale ha raccontato minuziosamente e con acume la saga sanremese di Lauro.

Il secondo è Alessandro Alfieri, che per Popmag ne ha descritto le possibili conseguenze, con la speranza che finalmente in Italia possa nascere un pop non esclusivamente riferito all’icona strappalacrime e provinciale, ma alla stratificazione dell’immaginario che si fa progetto artistico, aggregando diversi ambiti e linguaggi sul modello delle star americane, da Michael Jackson a Lady Gaga.

Achille Lauro può fare tutto questo? Quantomeno dimostra di avere le idee chiare sulla sua volontà di riuscirci. Certo che però non dovrebbe strizzare troppo l’occhio a ciò che funziona musicalmente in Italia. Sotto questo punto di vista, è un passo indietro il singolo 16 marzo, perché sembra Tommaso Paradiso fatto meglio (non che ci voglia poi molto).

Ma Lauro continua a far parlare di sé e a dividere la critica musicale. Questo, per lui, è un bene inestimabile. Purtroppo a volte la stessa critica si fa strascinare sul terreno dell’esposizione muscolare e della volgarità espressiva, che se non ha fini artistici risulta irricevibile. È successo in particolare nel caso delle dichiarazioni dell’artista dello scorso 4 luglio:

Lauro fa il suo gioco, che dal rap al pop inteso alla Vasco non ha altro Dio all’infuori di Lauro. Sarebbe molto meno interessante se non fosse così. Molti ci sono cascati. Peccato. Ai critici musicali, a differenza che agli artisti, sarebbe richiesta riflessione argomentata, più che arroganza ad alzo zero da clickbaiting.

Intendiamoci: Lauro non ha ancora cambiato nulla di nulla nella musica italiana. Glielo auguro, la strada sembra essere buona, con qualche cedevolezza di troppo. Ma è una strada estremamente complicata, e di certo la recente separazione dal suo produttore Boss Doms non aiuta. Staremo a vedere.

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