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Srebrenica, 25 anni dopo – Continuo a vergognarmi (e ad avere incubi) per quel massacro a due passi da casa nostra

Credo sia infinitamente immorale scordarsi di Srebrenica, del genocidio, delle 8.372 vittime musulmane trucidate dai serbi, quindi della “pulizia etnica” nel cuore di un’Europa distratta e poi incredula. Credo sia ancor peggio dimenticare il ballo degli ipocriti che per anni accompagnò e continua ad accompagnare la memoria degli immondi massacri, le manovre e le oscene dichiarazioni dei negazionisti, l’imbelle caccia ai boia che li perpetrarono.

Non parliamo poi degli ostacoli delle omissioni e delle reticenze – a livello diplomatico, militare e politico – che per anni complicarono il lavoro del Tribunale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex-Jugoslavia. L’ex procuratrice Carla Del Ponte ci ha scritto un libro, dopo aver lasciato l’incarico nel 2008, non senza polemiche e parecchie recriminazioni.

L’assedio serbo cominciò il 9 luglio del 1995. Due giorni dopo la cittadina, che aveva accolto migliaia di profughi musulmani, capitolò: l’11 luglio iniziò il genocidio compiuto dal generale serbo Ratko Mladic e dal suo complice Zeliko Raznatovic detto Arkan la Tigre, che guidava feroci tagliagole aggregati come paramilitari alla Jna (Jugoslavenska Narodna Armija).

Ma ciò che mi indigna profondamente, e che ancora oggi mi imbufalisce, è non aver portato alla sbarra del tribunale dell’Aja l’ineffabile colonnello Thom Karremans, che in quel maledetto luglio del 1995 era a capo del contingente olandese Onu e aveva dichiarato Srebrenica “safe area”, area protetta, mentre invece lasciò fare a Mladic e Arkan. Poi ci vengono a fare la morale, questi probi cittadini “frugali” del Nord Europa…

Lada Brozovic, la mia interprete croata – allora “coprivo” i conflitti esplosi nell’ex Jugoslavia per Repubblica – mi riferì che un collega bosniaco le aveva rivelato cosa era successo da quelle parti. Me lo scrisse in una lettera: “I serbi e gli sgherri di Arkan hanno rastrellato Srebrenica e portato via tutti i maschi dai 14 agli 80 anni. Nessuno li ha più visti. Li hanno uccisi e gettati nelle fosse comuni, come hanno già fatto in tanti altri posti. Solo che stavolta sono scomparse almeno sette-ottomila persone”. Rimasi incredulo. Il collega che aveva informato Lada l’aveva saputo a sua volta da Hasan Nuhanovic (interprete del contingente olandese di Srebrenica). Non solo. Raccontò di un affabile colloquio tra Mladic e il capo dei Caschi Blu, tra una rakja e l’altra.

Dentro di me continuo a vergognarmi che ciò sia avvenuto, a due passi da casa nostra, mezzo secolo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah: ogni volta che torno da quelle parti – ho ricordi struggenti e drammatici, non posso fare a meno di ripercorrere quelle strade – il passato mi parla attraverso le insegne stradali, le tracce ancora visibili della guerra, gli sguardi tristi della gente, la voce di chi ti dice che s’incrina di dolore, di sgomento, di rassegnazione, “vedi? Laggiù hanno preso mio marito e mio figlio, ho ritrovato i loro corpi in una discarica…”, “lì sono state stuprate decine di donne, volevamo posare una lapide, ce l’hanno vietato…”, “per quasi quindici anni non è nato un bambino a Srebrenica…”, “ecco, era laggiù a Potocari, la base del contingente olandese, quando ci hanno lasciato al nostro destino, fingendo di non vedere quello che i serbi facevano…”.

Le tracce del male sono ovunque, perpetua geografia etica della mia coscienza. Certe notti sogno i cimiteri lungo la valle della Drina e una voce (quella di una ragazza che fa la fotografa, non ne rammento più il nome) che mi chiede: perché questa impunità? Perché gli assassini di massa sono introvabili, chi gli garantisce la libertà? Chi permette tanta ingiustizia? E io non so risponderle.

Prima o poi avrò il coraggio di dirle che anch’io ho una piccola, ma infame, responsabilità. La colpa d’aver scritto una Grande Bugia. Aver enfatizzato il disegno ambizioso dell’allora presidente jugoslavo Slobodan Milosevic quando, nel febbraio del 1984, a Sarajevo, sostenne che i Giochi Invernali rappresentavano il compimento di un progetto considerato impossibile, quello “dei Balcani riuniti”. Lo dimostra, aggiunse, il successo della Jugoslavia, la via ad una democrazia socialista in grado di armonizzare “sei repubbliche, cinque etnie, tre religioni, due alfabeti”, e di celebrare tutto sotto la stessa bandiera, grazie ad accorte alchimie costituzionali che garantivano diritti e libertà di ogni cittadino jugoslavo.

Invece, il mirabile progetto era una soperchieria politica, il nazionalismo serbo avrebbe divorato chi gli si opponeva, in nome delle quattro “s”: Samo Sloga Srbina Spasava (‘Solo l’unità salva i serbi’). E la Jugoslavia divenne un gigantesco campo di morte ed orrori.

Solo molto dopo venni a sapere che Tito, poco prima di morire, aveva disilluso i suoi collaboratori che chiedevano quali istruzioni adottare per il futuro della Federazione: “La Jugoslavia non esiste, muore con me!”.

Che la terra sia lieve per le vittime di cui abbiamo i resti ma non i nomi e delle quali si occupa l’Istituto bosniaco per le persone scomparse, nei gorghi di una Storia immorale. La nostra Storia.