“Ho compiuto i miei 21 anni a Srebrenica, pochi giorni prima che la città cadesse. È l’età in cui un ragazzo dovrebbe pensare a bersi una birra con gli amici, a provarci con le belle ragazze. Io, invece, passavo le mie giornate a vedere i musulmani che si impiccavano nelle proprie case. Per molti era preferibile morire piuttosto che finire nelle mani dei serbi”. Boudewijn Kok vive in Olanda, ha 46 anni. E gli ultimi 25 li ha trascorsi tentando di scacciare dalla mente il ricordo delle grida che sentiva quando, indossando i panni di Casco Blu dell’Onu, si trovava nella cittadina bosniaca nei giorni in cui sono stati uccisi oltre 8mila musulmani. Insieme ad altri 300-400 peacekeeper, era membro del contingente olandese incaricato di difendere la città dall’assalto del generale serbo-bosniaco Ratko Mladić che, invece, era determinato a conquistare una città fondamentale per irrobustire la presenza serba nella Bosnia orientale ed era stufo di giocare una partita rivelatasi troppo costosa.

Oggi Boudewijn lavora per una grossa compagnia italiana, ha un figlio che ama, una bella casa. Ma quelle grida non è ancora riuscito a lasciarsele alle spalle. “Non passa giorno senza che io non ci pensi. Mi basta chiudere gli occhi e ho di nuovo tutto davanti. Rivedo quelle persone, sento l’odore dei morti. Sono tornato in Bosnia oltre 20 volte da allora. Ho bisogno di andarci perché li ho perso l’uomo che ero e che non sono più stato”.

Sul suo profilo Facebook, l’immagine di profilo riporta la scritta “Remembering Srebrenica”. Quello dei social, però, non è l’unico luogo in cui Boudewijn ribadisce il suo legame con la Bosnia. “Il mio braccio sinistro è ricoperto di tatuaggi dedicati a Srebrenica. Li ho fatti perché è il mio modo di raccontare quello che è successo, fa parte del mio processo di elaborazione”. L’arte sulla pelle rappresenta solo una delle declinazioni attraverso cui Boudewijn tenta di rendere sostenibile il ricordo. “Appena sono tornato in Olanda, dopo il genocidio, ho lasciato l’esercito. Non riuscivo più a tenere in mano un’arma. Ho iniziato a lavorare come cuoco e, come tanti miei colleghi, ho iniziato una terapia che è durata qualche anno. Ma per diversi di noi non c’è stata soluzione. Circa una decina di ex Caschi Blu si sono suicidati per smettere definitivamente di pensare. Io soffro ancora di disturbi post-traumatici. Ma almeno ho trovato il mio equilibrio”.

Se quello che lui e i suoi compagni hanno vissuto nell’estate del 1995 è stato così terribile da costringerli a “invecchiare di dieci anni in pochi giorni”, tuttavia viene spontaneo domandarsi come mai non ci siano stati seri tentativi da parte loro di frenare l’isteria omicida dei serbo-bosniaci. “Cosa credi, che non abbiamo sparato? Abbiamo sparato. Ma eravamo 300 militari mandati lì nel ruolo di controllori. Nelle nostre pistole avevamo dieci proiettili in tutto contro un esercito forte di migliaia di uomini equipaggiatissimi. Se ci fossimo ribellati, se li avessimo uccisi, i serbi non avrebbero certo risparmiato le vite di 8mila musulmani. Semplicemente, avrebbero sacrificato anche le nostre”.

Nonostante Boudewjin ammetta che con la consapevolezza di oggi le cose avrebbero potuto prendere una piega meno tragica, dal suo timbro di voce trapela tutta la sicurezza di chi è convinto di quel che dice quando ribadisce che la vera responsabilità è delle Nazioni Unite. “Abbiamo chiesto e richiesto aiuto, munizioni, rinforzi. Non c’è mai arrivato nulla. Eravamo prostrati, non avevamo nemmeno cibo, ero dimagrito dieci chili in poche settimane. Quell’operazione è stata un totale fallimento, certo. Sono giorni in cui l’Onu ha commesso 8.374 sbagli. Tanti quanti sono i musulmani morti. Più i due Caschi Blu che hanno perso la vita per rappresaglia”.

Il senso di impotenza dei Caschi Blu durante quei giorni è cosa nota. Tre giorni prima del massacro, le forze serbo-bosniache riuscirono a conquistare senza troppa fatica diverse postazioni di militari, costringendoli alla consegna di tutte le armi. Il tenente colonnello olandese Tom Karremans cercò di riparare all’umiliazione subita chiedendo l’immediato intervento di aerei Nato. Ma era soltanto il preludio di una disfatta che sarebbe entrata nella storia. Il 9 luglio furono prese d’assalto dai paramilitari altre postazioni e i Caschi Blu prigionieri salirono a 55. Gli ostaggi si rivelarono una pedina essenziale nella strategia di Mladić che li sfruttò per ottenere la passività delle Nazioni Unite davanti ai suoi crimini in cambio dell’incolumità di quei giovani militari internazionali. Nelle stesse ore, a New York il Consiglio di sicurezza adottò all’unanimità una risoluzione per chiedere l’immediato ritiro dei serbo-bosniaci da Srebrenica. Ma fu tutto inutile. E tra l’11 e il 13 luglio venne portata avanti la grande mattanza.

“Abbiamo fatto tutto quello potevamo. Sentendoci inermi, abbiamo cercato di aiutare almeno le donne e i bambini. Davamo loro il poco cibo che c’era, li aiutavamo a salire sugli autobus per lasciare Srebrenica. Tra i bambini c’era anche Samira. Aveva 12 anni e mi ci ero affezionato moltissimo. Quando è partita le ho fatto promettere che sarebbe sopravvissuta. E che sarebbe stata felice”. Una volta tornato in Olanda, l’ex soldato ha cercato informazioni della bambina bosniaca che aveva nel cuore. Le prime ricerche andate a vuoto lo hanno spinto a ricorrere alla forza dei media. “Nel 2012 ho raccontato la sua storia alla tv olandese. Da lì si è attivata una catena di passaparola internazionale che mi ha aiutato a ritrovarla. Ho potuto riabbracciarla in quello stesso luogo in cui ho lasciato per sempre una parte di me”.

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