L’antropologo John Davis diceva che le forze esterne del mercato modificano, talvolta in meglio, le vite delle persone più umili nelle comunità. E commentava: “Certo, questo provoca grande tristezza nei liberals urbani sempre romanticamente affezionati alla povertà degli altri”. L’idea che i consumi determinino necessariamente una forma di involgarimento, che le masse diventino becere nel loro tentativo di migliorare la propria condizione anche attraverso la merce, che esista da qualche parte un’autenticità del subalterno che viene tradita dalla mutazione antropologica, sono temi che attraversano la cultura della sinistra da decenni.
Una delle voci che su queste cose ha detto cose intelligenti è quel Tommaso Labranca a cui Claudio Giunta dedica la biografia Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (il Mulino). Un personaggio liquidato come esperto del trash e che invece Giunta ci restituisce come acuto interprete della società e della cultura del Dopoguerra, brillante sociologo e semiologo ma senza birignao e paludamenti accademici, totalmente calato – per fortuna sua e nostra – nel ‘basso’ che egli intendeva descrivere, distante sia dallo snobismo degli intellettuali che da quella posa – altrettanto intellettuale e accademica – di dignificare il popolare in questo facendosi paradossalmente iper-rappresentanti di quella cerchia ‘alta’ a cui pretenderebbero di sottrarsi.
Il libro di Giunta è una strana biografia, scritta intanto mentre molti dei ‘testimoni’ sono ancora vivi. Un libro in certa misura ‘pettegolo’, fatto di dichiarazioni senza autori, aneddoti anonimi, dal quale Labranca emerge come una sorta di depresso e disadattato roso dall’invidia e in qualche modo malevolo e vendicativo. Ma ciò che più conta, mi pare, è che in realtà oltre che di Labranca, si parli proprio del rapporto tra intellettuali e popolo nell’Italia che va dal boom economico a Ferie d’agosto, da Pasolini Savinio Flaiano a Don Milani a Murgia (del cui ‘fascistometro’ dice Giunta, definendolo “idiozia farisaica”, che avrebbe depresso e deliziato Labranca).
Il libro è un elogio degli anti-retorici (scritto paradossalmente da un accademico, e anche piuttosto à la page, e questo nella lettura si nota) in cui Giunta condivide la simpatia anti-pasoliniana di Labranca non per i puri e gli asceti di fronte al consumismo, ma al contrario per coloro che vi si abbandonano, pensando in questo modo a un riscatto rispetto all’umiliazione. In fondo, è la storia della 600 Fiat e degli operai che correvano a comprarsela firmando cambiali, e poco importa se servisse alla famiglia oppure a portare, come nell’episodio Vernissage dei Mostri di Dino Risi, il buon padre di famiglia a prostitute.
Risi, un autore amatissimo da Labranca, ferocissimo quanto forse Labranca ha saputo essere nei confronti di un certo mondo culturale melenso: la sinistra dei buoni valori, delle buone cause, degli appelli di cui Arbasino diceva che Moravia aveva sempre già firmato, delle battaglie ‘giuste’, della insopportabile retorica della ‘parte del torto’ brechtiana che ha finito per venire trasformata nel conformismo da Nonna Papera.
Ma si diceva della tenerezza di Labranca per la purezza infantile del povero che compra gli status symbol del consumismo. Tuttavia in Labranca, che era cattivo ma non cinico, non c’è comprensione per il neoproletariato dei “piccolo-borghesi involgariti”, quella ‘classe’ che si forma tra i Settanta e gli Ottanta e che risulta dalla trasformazione di quei proletari patetici (verso i quali si poteva pure provare empatia, anche per la loro smania di consumo per emanciparsi) in neoproletari incattiviti.
Labranca è stato in fondo espressione di quella cultura postmoderna in cui niente poteva essere più preso sul serio. Oggi circolano certi suoi epigoni intromboniti e paradossalmente iper-accademici che pensano che invece tutto sia da prendere sul serio, e di fare filosofia del pop e buttare a mare Hegel perché tanto abbiamo le serie TV. Sussiegosi, ci spiegano quanto sia importante capire il fenomeno Ferragnez e dalle colonne dei giornali ci ammoniscono se alziamo il sopracciglio per il successo editoriale dell’ultimo libro di Giulia De Lellis sulle corna. Di fronte a questi labranchiani senza il talento e le intuizioni dell’originale, viene voglia di difenderla un po’ quella retorica, e magari anche l’eloquenza, per sottrarsi al mondo cinico in cui tutto è un (serissimo) scherzo.