La nazionale maschile di pallavolo che vinse 3 mondiali in fila non è spuntata sorprendentemente dal nulla. Dietro c'è stata un percorso lungo un decennio, che l'ex centrale di Milano, Parma e Cuneo, 214 presenze in azzurro, racconta nel libro 'In viaggio con i fenomeni' (edito da Urbone Publishing). Tutto è iniziato sotto lo sguardo del professor Pittera: "Serviva un progetto: ragazzi con fisici diversi, una nuova metodologia di allenamento e lo studio delle statistiche”
La “generazione di fenomeni”, la nazionale italiana maschile di pallavolo che trent’anni fa conquistava il suo primo mondiale (dei tre vinti in fila), non è stata una squadra spuntata sorprendentemente dal nulla. Dietro c’è stata un percorso iniziato almeno dieci anni prima, una storia fatta di adolescenti che passavano le loro estati in ritiro ad allenarsi. Lo racconta uno dei protagonisti, Claudio Galli, ex centrale di Milano, Parma e Cuneo, 214 presenze in nazionale, già commentatore per la Rai e dirigente. Lo fa nel libro In viaggio con i fenomeni (edito da Urbone Publishing) dove, raccontando la sua carriera, ripercorre quelle stagioni in cui alcuni teenager di tutta Italia – tra cui Andrea Zorzi, Paolo Tofoli, Luca Cantagalli e Andrea Gardini – si ritrovavano ad Agerola (Napoli) per allenarsi sotto lo sguardo del professore Carmelo Pittera, allenatore della nazionale medaglia d’argento ai mondiali di Roma del 1978 (i “gabbiani d’argento”) e poi commissario tecnico.
In quella maniera nel 1979 cominciano le selezioni a livello locale, via via fino ad arrivare a un collegiale di quattro settimane e più di cento ragazzi. “Abbiamo partecipato al raduno di Agerola in gruppi separati. Dall’anno dopo si è costituito il gruppo che ci ha portato a essere amici, anche con alcuni che magari non hanno continuato con la nazionale maggiore, ma hanno fatto parte di quell’esperienza iniziale”, prosegue Galli. Da allora le vacanze di quei ragazzi non sono più state come quelle dei loro coetanei: “Dall’età di 15 anni le abbiamo passate in ritiro, venti o venticinque giorni, poi una pausa di tre o quattro giorni per tornare a casa a lavare i vestiti e poi si ricominciava per altri venti giorni”. Un sacrificio? “No, lo facevamo perché stavamo bene insieme”.
A lungo, però, non hanno preso parte a competizioni internazionali ufficiali: “Per quattro anni abbiamo fatto soltanto allenamenti e qualche torneo. I veri campionati sono stati gli Europei juniores del 1984”. Un primo banco di prova in cui si è visto di cos’erano capaci quei giovani. Bronzo a quell’europeo, argento ai Mondiali juniores a Milano nel 1985. Dopo l’arrivo di Julio Velasco alla guida della nazionale maggiore, gli azzurri vincono l’Europeo del 1989 e poi il Mondiale del 1990 affermandosi sulla scena.
“L’arrivo di Velasco è stato la ciliegina sulla torta, una torta che era già ben preparata”, commenta a ilfattoquotidiano.it Pittera, 76 anni, catanese. “Con il Mondiale del 1978 la nazionale aveva avuto un risultato notevole, ma non è stata quella che pensavo potesse essere il futuro. Volevo fare un programma del tutto diverso che potesse portare l’Italia ad altissimi livelli”. Grazie al segretario federale Gianfranco Briani, allora, cerca in ogni regione alcuni allenatori che potessero osservare e selezionare i giovani da affidare poi a uno staff con altri allenatori, fisiologi e psicologi. “È stato creato un programma di lavoro, sviluppo e formazione che prima era impossibile perché non c’erano fondi. Il miracolo avvenne quando un colonnello venne a chiedermi un aiuto per le squadre militari e io chiesi a lui un aiuto a trovare spazi per fare i collegiali di due mesi. Poi abbiamo cercato un allenatore per la sezione femminile e uno per la maschile, Aleksander Skiba, con cui lavoravamo giorno e notte per il programma”.
Nel suo libro, Galli rende omaggio a Pittera: “Volevo anche fosse riconosciuto il merito a chi ha iniziato questo percorso. Se non ci fossero state le idee e la perseveranza di Carmelo, non saremmo mai arrivati a quei livelli”. Oltre agli allenatori, c’è spazio anche per quei compagni di squadra meno noti rispetto ai vari Andrea Lucchetta o Lorenzo Bernardi, come ad esempio Stefano Margutti: “Ricordo la finale della World League del 1991 a Milano: è entrato, ha fatto 11 punti su 11 attacchi e abbiamo preso il La. Ci sono giocatori meno conosciuti al grande pubblico, ma che hanno un’importanza determinante per uno sport di squadra come la pallavolo ed è giusto darne conto”.