Intervista al direttore scientifico dello Spallanzani, esponente del comitato tecnico scientifico su Sars-Cov2: “L'epidemia non è finita. Il rimedio è sempre lo stesso, quello delle tre T. Cioè testare i potenziali infetti, tracciare i contatti, trattare i malati". I tamponi? "Sono un bene pubblico e bisogna evitare che diventino un altro mercimonio a caro prezzo da parte di privati". Poi avverte: "I test rapidi oggi disponibili non sono la panacea di tutti i mali". E parla dell'unico farmaco finora utile nella riduzione del tasso di mortalità
“Bisogna mantenere alto tasso di allerta, guardiamo quello che sta accadendo in Israele, dove è tornato il lockdown, l’epidemia non è finita“. Nel mondo sono 220mila i contagi nelle ultime 24 ore, una soglia mai raggiunta finora. Il governo italiano ha deciso di prolungare lo stato d’emergenza e sia il premier Giuseppe Conte, sia il ministro Roberto Speranza parlano di “sfida ancora insidiosa e gradualità necessaria”. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto a Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, che fa parte del comitato tecnico scientifico quali possano essere le misure da adottare in questa fase di contagi più bassi nel nostro Paese ma di pandemia ai massimi in diverse zone del mondo.
Professor Ippolito, i casi importati dall’estero possono innescare nuovi focolai, come si può evitare? Facendo test rapidi e tamponi in tutti negli aeroporti?
Certamente sì, i casi importati dall’estero possono innescare nuovi focolai di contagio. D’altra parte il virus è sempre lui, non mi stancherò mai di ripeterlo, è lo stesso che ha causato migliaia di morti in Italia e continua a causarne in giro per il mondo, sia nelle aree (come India o Sud Africa) dove è ancora i corso la prima ondata, che in quelle (come Stati Uniti e Israele) dove è in corso una risalita della curva dei contagi. Per contrastare questo rischio il rimedio è sempre lo stesso, quello delle tre T: testare i potenziali infetti, tracciare i contatti, trattare i malati. Nel caso dei passeggeri di voli provenienti da zone a rischio il test va fatto il prima possibile, quindi anche in aeroporto. Di certo aiuterebbe che le persone che avvertono sintomi evitassero di prendere l’aereo.
In Nuova Zelanda chiunque entri nel paese deve fare test, è obbligatorio, (nell’isola dell’Oceano Pacifico, i costi sono a carico del viaggiatore), è fattibile anche in Italia?Non è risolutivo chi paga il tampone o il test, ciò che conta è avere regole chiare a tutela di tutti. In Italia le regole sono chiare: chi arriva dall’esterno dello spazio di Schengen deve sottoporsi a due settimane di isolamento domiciliare. Sono regole dure ma sono prese per il bene di tutti, chi le viola deve sapere che sta diffondendo il contagio e si sta assumendo responsabilità morali e anche penali. In ogni caso i tamponi sono un bene pubblico e bisogna evitare che diventino un altro mercimonio a caro prezzo da parte di privati che utilizzano lo stato di necessità o la pressione mediatica per proporre a caro prezzo un mercato alternativo al pubblico. Il prezzo dei tamponi è di circa 70 euro e quello delle sierologie 15.
Misurare la febbre negli aeroporti è utile?
È sicuramente utile ma non risolutivo. Sappiamo infatti che il contagio può essere diffuso anche da individui asintomatici o presintomatici. La misurazione della temperatura è un pezzo di una risposta globale.
Poi ci sono anche le frontiere terrestri? Anche qui test rapidi?
Le regole per le frontiere terrestri o marittime sono le stesse di quelle in vigore per gli aeroporti. Il ministero ha pubblicato la lista dei paesi attenzionati. Le misure sono quelle di isolamento domiciliare obbligatorio per due settimane. I test rapidi oggi disponibili non sono la panacea di tutti i mali, visto tra l’altro che la loro affidabilità non è ottimale.
Gli ultimi casi romani provengono principalmente da Dacca, (ma non solo, anche Egitto, India, Pakistan, Ungheria) cosa si può fare per evitare questa tipologia di casi?
Si può fare quello che si è già fatto: il Ministro della Salute ha appena emanato una ordinanza che chiude le frontiere italiane a chi proviene, con collegamenti diretti o indiretti, da alcuni paesi dove è in corso una elevata circolazione del virus. Le persone che a Dacca sono salite su quell’aereo con la febbre o con la tosse devono sapere che è anche una loro responsabilità se tanti loro connazionali incolpevoli non potranno per molto tempo ancora tornare a lavorare nel nostro Paese. Ciò che va assolutamente evitato è associare lo stigma della malattia sulle persone che provengono dal Bangladesh o da altre nazioni: c’è già troppa gente, anche con responsabilità politiche, che nel nostro paese soffia sul fuoco del razzismo nei confronti degli immigrati. Ricordiamoci sempre che la malattia la causa il virus, non le persone.
Stiamo facendo gli errori di gennaio?
Oggi sappiamo molte più cose su questo virus, su come si diffonde e su come ci si può proteggere, abbiamo messo in campo un sistema di sorveglianza e di tracciamento, i nostri clinici hanno imparato a trattare i malati con ottime percentuali di successo.
Il trattamento anti-covid19 basato sull’uso dell’idrossiclorochina è stato quasi immediatamente bloccato da varie organizzazioni. Anche sul plasma non si è arrivati a standard condivisi. Cosa significa?
Significa che l’efficacia di un farmaco va testata con studi randomizzati controllati fatti con serietà e con i tempi che ci vogliono, senza scorciatoie dettate dalla fretta o da altri interessi inconfessabili. L’efficacia di un farmaco o di un trattamento non si valuta né in base alla pressione politica né in base a studi condotti su pochi pazienti e senza bracci di controllo. Questo vale per l’idrossiclorochina, per il trattamento con plasma di convalescente e su qualunque altro trattamento. Studi seri sull’utilizzo dell’idrossiclorochina e di altre terapie sono in corso in tutto il mondo ed anche in Italia: vedremo a cosa porteranno. Al momento però, tanto per essere chiari, non vi è alcuna evidenza scientifica dell’utilità di questo farmaco né dell’utilizzo del plasma convalescente.
Il Remdesivir funziona? Il suo uso è principalmente per infusione endovenosa, quindi ospedaliera e non precoce, corretto?
Il Remdesivir è stato approvato dalla FDA (food and drug administration), con una generosa “spinta” dell’amministrazione Trump, sulla base di uno studio che dimostrava qualche giorno di velocizzazione nel recupero dei pazienti ma nessuna riduzione del tasso di mortalità. La Gilead che lo produce ringrazia e porta a casa: il trattamento per cinque giorni costa 2.300 dollari (3.000 per le compagnie assicurative), gli Stati Uniti hanno già prenotato 500.000 trattamenti, ovvero l’intero stock produttivo dei prossimi due mesi, per un totale abbondantemente superiore al miliardo di dollari. Ad oggi l’unico farmaco che si è dimostrato utile nella riduzione del tasso di mortalità, sulla base di uno studio randomizzato con un braccio di controllo, è il desametasone, un comune cortisone che in Italia costa pochi euro.