Parola di Alpha, 63 anni consumati dal tempo e dalle vicende della vita. Lamenta di sentirsi discriminato, escluso, rifiutato e considerato meno di un servo nel suo paese natale. Era nello stadio di Conakry il 28 settembre del 2009 per una manifestazione politica delle ‘forze vive’ della Guinea. Il bilancio delle forze dell’ordine che spararono sulla folla fu impressionante e a tutt’oggi impunito. Nell’intervento armato si assistette a violenze carnali pubbliche su donne e ne risultò un massacro di 157 morti e 1200 feriti. Alpha è uno di loro e, con pudore, scopre la gamba che porta ancora le tracce della sparatoria. Ferito e arrestato dai militari passa 17 mesi in un campo di detenzione e scappa senza mai essere stato giudicato.

Raggiunge con mezzi di fortuna l’Algeria dove lavora per sette anni nell’edilizia come buona parte dei migranti e rifugiati nel Paese. Arrestato nella strada dai militari algerini è deportato e poi espulso una prima volta dal Paese. Con un gruppo di 17 persone, dietro pagamento di una somma di denaro, cerca invano di riguadagnare l’Algeria. Stavolta è accompagnato alla frontiera non prima di essere stato condannato a sei mesi di carcere col beneficio della condizionale dalle autorità algerine.

Dice che quello è il suo destino e il destino del popolo ‘Peul’ al quale appartiene. Lui, la sposa e i suoi due figli, il più giovane dei quali, tredicenne, si chiama Abdouramane che significa ‘schiavo della pace’. La figlia maggiore, chiamata Djamila, nome che significa ‘bella’, ha 25 anni e Alpha sua padre conta su di lei per rischiare di tornare al Paese dopo tutti questi anni di esilio forzato.

Iscritto dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) dal 3 gennaio di quest’anno, è in lista d’attesa infinita per un problematico ritorno in patria visti i precedenti. La chiusura delle frontiere a causa del Covid-19 non ha per nulla facilitato il processo e forse anche per tentare di leggere la sua vita chiede un paio di occhiali. Dice che gli serviranno per poter chiamare per telefono la figlia affinché possa spedirgli il denaro sufficiente per il viaggio di ritorno. Ricordare le umiliazioni subite in Algeria, dove sulla strada alcune persone lo chiamavano ‘schiavo’, lo rende triste perché lo trova meno grave che essere considerato servo e indesiderato nel suo proprio Paese. Ringrazia per gli occhiali e la modesta somma che userà per chiamare la figlia e supplicarla di mandargli il necessario per l’incerto ritorno. Meglio schiavi in terra straniera che servi a casa propria, dice.

Cosmas, centrafricano, voleva andare a farsi curare in un piccolo Paese della costa atlantica chiamato Togo, soggiogato da decenni da una dinastia che si avvale della complicità internazionale. Per evitare la pericolosa Nigeria passa attraverso il Tchad e raggiunge il Niger. Arrestato in circostanze assai dubbie è poi accusato di stupro nei confronti di una persona in non pieno possesso delle proprie facoltà nel 2013. Rimane per sei anni in carcere senza nessun processo. Dopo un paio d’anni, visto che altre persone, accusate dello stesso delitto e incarcerate dopo di lui, erano state giudicate e rilasciate, aveva deciso di darsi la morte perché gli era diventata troppo pesante, da portare, la vita. Ha ingerito una buona quantità di pastiglie ma non sufficienti per il grande transito. Lo hanno salvato malgrado lui e, dopo aver completato i sei anni è stato infine giudicato dalla Corte di Assise di Diffa e condannato alla pena che aveva terminato di scontare.

Cosmas, 38 anni vissuti, era partito per farsi curare, munito di una stampella, nel 2012 e oggi, nel 2020, si trova dove non avrebbe mai voluto trovarsi. Ospite dell’OIM, in un tempo sospeso di attesa senza un futuro prevedibile con Nadège sua sposa e il figlio Elvis di 12 anni entrambi rifugiati a Brazzaville, nel Congo. La stessa Commissione Nazionale dei Diritti Umani, da lui contattata, non ha potuto fare altro che constatare l’assurdità della situazione e paragonarla ad altre simili e terminate ancora peggio della sua.

Sono una creatura, scriveva il poeta Giuseppe Ungaretti, nato in Africa da genitori italiani. Siamo creature, dicono Alpha, Cosmas, Diamond che torna dal Marocco dopo tante peripezie e Jerry che arriva da Monrovia e strada facendo è stato derubato del necessario per continuare il viaggio. Suo padre, forse per una lontana profezia, l’ha chiamato anche Visa. Jerry Visa che, naturalmente, non possiede per passare le frontiere. Come questa pietra, così fredda e dura e prosciugata e refrattaria, scrive Ungaretti che la morte si sconta vivendo. Visa mostra il biglietto col quale ha raggiunto Niamey e spera tanto di tornare da sua madre.

Niamey, luglio ’20

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