Quattro gli oligopolisti che hanno certificato i bilanci delle società protagoniste dei maggiori scandali finanziari: KPMG, PwC, Deloitte e Ernst & Young. E a rimetterci sono, soprattutto, i contribuenti con i cui soldi poi si "salvano" i crack. Come è successo per la Royal Bank of Scotland, salvata con 45 miliardi di sterline pubbliche. Ma perché le società di revisione se la cavano, al massimo, con qualche multa? Le ragioni sono molteplici, tra cui azioni di lobby e un conflitto di interessi implicito
Ops, ci siamo persi un miliardo di euro. Soldi che c’erano invece non c’erano, e per scoprirlo sarebbe bastata qualche telefonata e una giornata di lavoro. È questo il motivo per cui il colosso della consulenza e della revisione contabile Ernst & Young (EY) è finito sotto accusa in Germania in relazione alla bancarotta della fintech Wirecard. Quest’ultima riportava a bilancio disponibilità liquide per oltre un miliardo, depositate, a suo dire, in un conto di Singapore. Soldi che in realtà non esistevano ma che nessuno ha verificato. A cominciare da EY, pagata per farlo.
Se vi stupite in questi anni avrete probabilmente avuto di meglio da fare che leggere cronache di scandali finanziari. Perché la “bottega degli orrori”, gestita dai quattro oligopolisti della certificazione contabile KPMG, PwC, Deloitte e, appunto, EY, è affollata di piccoli e grandi mostri. E ognuno dei quattro ci ha messo del suo. EY è stata ad esempio già revisore contabile della Lehman Brothers, protagonista, nel 2008, del più grande crack finanziario della storia. Eppure i bilanci della banca erano in allegato al documento del suo revisore: erano stati redatti in modo “full and fair”, completo e corretto. In particolare nessuna segnalazione è mai giunta sull’uso da parte di Lehman di un sistema noto come “repo 105”, usato per abbellire i conti a ridosso della presentazione dei bilanci. Si vendevano asset con l’impegno a riacquistarli, facendo temporaneamente diminuire il livello di debito e rassicurando così i mercati. EY, poi, è finita sotto inchiesta anche per il fallimento e le falsificazioni contabili condotte dal HealthSouth, gruppo di servizi sanitari. Procedimento da cui si è liberata pagando una multa di 109 milioni di dollari.
Deloitte ha verificato e certificato la correttezza dei bilanci, tra gli altri, della Royal Bank of Scotland, banca collassata nel 2008 e nazionalizzata grazie a 45 miliardi di sterline dei contribuenti britannici. Le inchieste hanno portato alla luce clamorose sopravvalutazioni degli asset della banca, senza che il revisore abbia agito per arginare questa pratica. Il gruppo KPMG si occupava invece dei conti di HBOS, altra banca inglese salvata nel 2008 dal governo britannico. Eppure di valutazioni e rischi di prestiti immobiliari KPMG avrebbe dovuto intendersene. Certificava infatti anche i bilanci dei quattro più grandi erogatori di mutui subprime statunitensi, ossia Wells Fargo, Countrywide, Option One e New Century. Tutte società salvate poi dalla bancarotta dal governo statunitense. Tra le “perle” delle certificazioni fatte da KPMG, c’è anche quella del gruppo Xerox nel cui bilancio figuravano miracolosamente tre miliardi di dollari inesistenti. Finita sotto inchiesta della SEC (la Consob statunitense), KPMG se l’è cavata pagando una multa.
Ultima, ma non certo per palmares, Pwc che ha dato via libera ai bilanci di Northern Rock, altro disastro finanziario inglese del 2008 al quale il Governo è stato costretto a rimediare. E poi di Tyco, gruppo statunitense protagonista di una frode contabile costata oltre 3 miliardi di dollari. Dulcis in fundo, Pwc ha certificato senza batter ciglio (o quasi) i bilanci del gigante americano delle assicurazioni AIG. Il gruppo aveva una fortissima esposizione come assicuratore sui prodotti finanziari legati ai mutui subprime: per scongiurare il disastro sono serviti miliardi di dollari dei cittadini statunitensi.
Sono solo i casi più noti ed eclatanti. Ma ricordiamo che, ad esempio, solo in Italia sono stati certificati i bilanci di Parmalat, Popolare Vicenza, Banca Marche, Banca Etruria, Veneto Banca, Carige etc. Nessuno di questi scandali finanziari è venuto alla luce per i rilievi dei revisori contabili. A cosa servono allora? Come è possibile che questo accada e perché i quattro big planetaria della revisione e della consulenza se la cavano al più con qualche multa, irrisoria se rapportata al fatturato? Come riassume Richard Brooks nel suo libro “Bean counters” (“conta fagioli” è il nomignolo attribuito ai revisori contabili nel mondo della finanza), le ragioni sono molteplici. C’è un conflitto di interessi implicito nel quale, come accade per le agenzie di rating, i revisori sono pagati dagli stessi soggetti che devono poi valutare e controllare. C’è però anche una potentissima azione di lobby condotta da questi gruppi che ha portato alle emanazioni di norme che limitano fino quasi ad azzerarla la responsabilità dei revisori, proteggendoli da eventuali azioni collettive. Nessuno controlla i controllori insomma. Non solo. I quattro colossi affiancano all’attività di revisione quella della consulenza. Anzi è da quest’ultima che traggono i maggiori introiti e profitti. Nel 2016 i ricavi da attività di revisione sono stati pari nel complesso a 48 miliardi di dollari, quelli da consulenza finanziaria e fiscale a 75 miliardi. A tal proposito, Brooks ricorda come i tre quarti degli schemi di elusione fiscale utilizzati nel mondo, siano stati messi a punto da queste quattro società. Le pareti divisorie sono sottili e spesso i servizi finiscono per sovrapporsi generando ulteriori conflitti di interesse. Anche qui opera a pieno regime il sistema delle porte girevoli. Revisori di grandi società sono poi finiti a lavorare presso i controllati.
Negli anni di deregolamentazione finanziaria, la funzione di controllori è venuta completamente meno quando più ce ne sarebbe stato bisogno. Sono state avallate senza obiezioni tutte le tecniche di contabilizzazione più ardite. Dal timido “mark to market”, valutazione di un prodotto finanziario in base non al valore di acquisto ma a quello che ha in un dato momento sul mercato, al più spregiudicato HFV (hypotetical future value) in cui si mettono in conto valori che si suppone saranno raggiunti in futuro, fino al “mark to model”, dove una società si auto attribuisce il valore di ciò che possiede in base a sue valutazioni interne, una tecnica non a caso ribattezzata “mark to myth”. In un solo caso giocare con il fuoco ha finito con il provocare ustioni letali. Quello della bancarotta del gruppo dell’energia statunitense Enron, crollo talmente appariscente che trascinò con sé la società di revisione Arthur Andersen, co-protagonista delle frodi contabili che portarono al fallimento. Di cinque che erano, ne sono rimasti quattro che non hanno fatto altro che spartirsi l’eredità del caduto. Ancora più forti, ancora più ricchi.