C’è stato un tempo in cui i Queen erano una band molto più tradizionalista e ortodossa, nell’ambito del rock, di quanto la maggior parte delle persone non abbia invece imparato a conoscere dischi e dischi dopo. Il loro debutto omonimo Queen, che veniva pubblicato nel Regno Unito oggi nel 1973, ce li regala infatti così: all’insegna di un hard rock sì un po’ annacquato dal ricorso, massivo, a cori e armonizzazioni ma pur sempre tale.
E pure quella specifica, in copertina, che sottolinea puntuale il mancato utilizzo di sintetizzatori era stata messa apposta, proprio a voler rimarcare la genuinità del tutto: fatto, questo, assurdo se pensiamo all’evoluzione che ha visto protagonisti Freddie Mercury e compagni nel corso degli anni che sarebbero poi venuti. Per tanti, forse troppi, l’ascesa dei Queen – basti vedere il pluripremiato biopic Bohemian Rhapsody – prende il via direttamente con A Night At The Opera: saltando così a piè pari passaggi importanti nell’arco di vita di un gruppo qui, sì, agli esordi ma non per questo meno ispirato.
Si pensi, ad esempio, al brano Keep Yourself Alive: all’epoca ignorato dalle radio ma presente in ogni classifica chitarristica che si rispetti. La stessa Bbc Radio 1 si rifiuterà non una ma cinque volte di trasmettere la canzone per via dell’intro definito “troppo lungo”: parliamo, per capirci, dell’unico singolo sfornato dai Queen a non essere entrato in classifica oltremanica.
Dopo un’unica offerta, rispedita al mittente, ricevuta dalla Chrysalis (che cercava la spalla ideale da affiancare in tour ai Genesis), e due anni spesi a farsi le ossa dal vivo, la band ottenne le attenzioni e i servizi di John Anthony e Roy Thomas Baker dei Trident Studios: con quest’ultimo che affiancherà il gruppo fino a Jazz (1978), per tutti gli album che seguiranno il primo ad eccezione di A Day At The Races (1976). La condizione, unica e inappellabile, fu quella di dover attendere che le sale di incisione venissero liberate da artisti già allora di ben altro richiamo: David Bowie e Paul McCartney, solo per citarne due.
Oltre a quanto presente nella tracklist definitiva dell’album, i Queen registrarono anche l’inedito Mad The Swine: ripescato solo nel 1991 come lato b di Headlong. A dispetto di un sound ricco di reminiscenze, non ultimo l’amore e il rispetto nutrito da Brian May nei confronti di Jimi Hendrix, ma certo connotato da un’originalità fuori dal comune, Queen passerà inosservato arrivando a raggiungere il disco d’oro – negli Stati Uniti oltre che in Inghilterra – solo grazie all’uscita, un anno dopo, del successivo Queen II: trainato da quella stessa Seven Seas Of Rhye già presente qui, ma in versione primordiale.
In Italia, addirittura, il disco finisce per essere distribuito con sei mesi di ritardo e la dicitura, errata “Quenn” trascritta sulla costina laterale della relativa copertina. Ancora nel 1974 il gruppo viene descritto, dalla rivista Super Sound – ispirata al più celebre settimanale Melody Maker – come un terzetto: con Freddie Mercury nel doppio ruolo di cantante e chitarrista, senza che del già citato May vi fosse menzione alcuna.
Il resto, come ben sappiamo, è storia: i Queen intraprenderanno una carriera invidiabile, fatta sì anche di alti e bassi, interrotta – saltuariamente – da sortite soliste tutte trascurabili, che avranno comunque il merito, specie durante la metà degli anni Ottanta, di rinvigorirne l’ispirazione. Pochi gruppi, al di là di come la si pensi, possono infatti vantarsi di essere così trasversali e incrociare i favori di chi, del genere da cui tutto ebbe inizio, vuole saperne il giusto.
Nel corso di oltre due decadi il gruppo saprà infatti destreggiarsi con credibilità in un continuo movimento tra pop e rock riuscendo a definire i canoni di un sound tuttora inimitabile. A farla da padrona, all’inizio come poi nel prosieguo di questo percorso fortunato, se fino alla fine, sicuramente la voce, la timbrica, l’abilità e le idee di Freddie Mercury: l’unico che, nonostante i tentativi e i tributi, risulta ancora oggi, e giustamente, insostituibile. Con tutto ciò che è stato portato in scena da Brian May e Roger Taylor – orfani, per scelta (la sua), del bassista John Deacon – ascrivibile nel novero se non delle brutte figure sicuramente in quello delle insignificanze.