Il titolare della task force regionale per la produzione di mascherine e Dpi è già stato sentito dai pm come teste e ha riferito in aula su richiesta dei consiglieri M5s. Intanto l'Ansa riferisce che, secondo i primi atti di indagine, la moglie del governatore Roberta Dini - titolare del 10 per cento delle quote della società del fratello - "non avrebbe avuto un ruolo attivo nel caso"
Nel giorno della protesta dei consiglieri regionali del Movimento 5 stelle al Pirellone, emergono nuovi tasselli sulla vicenda dei camici forniti alla Lombardia dalla società del cognato di Attilio Fontana, Andrea Dini, durante l’emergenza Covid. “Sapevo avremmo corso dei rischi ma rifarei tutto, in coscienza ritengo sia stata la cosa giusta”, ha dichiarato durante un’informativa l’assessore Raffaele Cattaneo, già ascoltato nei giorni scorsi dai pm della procura di Milano e a capo della task force regionale per la produzione di mascherine e Dpi. “Qual era l’alternativa in quei giorni? Lasciare i nostri medici senza protezione, rimanere sul divano e scegliere la strada dell’irresponsabilità”, ha aggiunto, senza fornire ulteriori dettagli per non violare il segreto investigativo. Intanto dai primi atti dell’indagine, stando a quanto riportato dall’Ansa, risulta che la moglie di Fontana Roberta Dini – titolare del 10 per cento delle quote della società del fratello – “non avrebbe avuto un ruolo attivo nel caso”. Sulla posizione del governatore, invece, sono ancora in corso gli accertamenti degli investigatori.
“Non posso riferire in quest’aula con dovizia di particolari quello che è successo in quel periodo perché come è noto c’è un’indagine in corso“, ha esordito l’assessore al termine della protesta infuocata dei consiglieri pentastellati, riservandosi di farlo una volta che i fatti verranno resi noti dalla procura. Nel corso dell’informativa ha chiarito che il suo ruolo è stato quello di occuparsi delle “imprese che si volevano riconvertire” e di “reperire dispositivi”, non di “contratti” o di “distribuzione” del materiale medico. Poi ha lanciato un attacco a Palazzo Chigi: “La prima domanda che dobbiamo farci è perché la regione Lombardia a metà marzo ha dovuto prima lanciare un appello pubblico e poi istituire una task force per occuparsi del reperimento dei dpi. La risposta è una – ha aggiunto Cattaneo – lo abbiamo dovuto fare in supplenza alle mancanze del governo“. In conclusione, l’assessore è tornato a ribadire l’eccezionalità del momento in cui è stato costretto a operare, specificando che “compito della politica è tutelare l’interesse pubblico, in quel momento il più importante dovere era assicurare ai medici e al personale sanitario gli strumenti di protezione che purtroppo da altre parti non arrivavano. Se questo era l’interesse pubblico quanti di voi in quei giorni avrebbero subordinato l’interesse ad altre questioni? Nessuno”.
Parole che non arrivano in modo casuale, visto che secondo le ipotesi della procura riferite sempre dall’Ansa sarebbe stato proprio lui a consigliare ad Aria Spa – la Centrale acquisti della Regione Lombardia – di rivolgersi alla società Dama, di cui è titolare il cognato di Fontana. Un legame di parentela che Cattaneo conosceva bene, stando ai primi atti dell’inchiesta. In un’email datata 22 aprile e finita tra gli atti d’indagine si legge inoltre che “su indicazione” dell’assessore la prima partita di 75mila camici sarebbe stata integrata con un’ulteriore fornitura di 200mila pezzi. Secondo gli inquirenti, si tratta dell’ennesima prova del fatto che quella commissionata da Aria a Dama era una fornitura a tutti gli effetti e non una “donazione“. E che lo storno delle fatture sarebbe avvenuto solo dopo l’interessamento del programma tv Report alla vicenda. Cattaneo non è indagato ed è stato sentito dai pm come teste. Ulteriori novità sono attese con l’interrogatorio del dg di Aria Filippo Bongiovanni (che nei giorni scorsi ha chiesto di essere assegnato a un nuovo incarico), già fissato per i prossimi giorni.