Torniamo a parlare di Corrado Costa e non perché noi lo si sia deciso, ma perché Costa, con la pendolarità costante di un’intera costellazione, o di una cometa, torna a bussare alla nostra porta. Per chi, come me, lo ha conosciuto bene e da lui ha imparato quasi tutto di quel poco che sa a proposito di come debba comportarsi sul palco un poeta, il suo ritorno non è una novità: Costa non è mai andato via. Probabile che lo sia invece per l’Accademia, che si ostina a non sentire la sua voce che snocciola dal palco, con l’espressione di un sorridente equivoco, i suoi indimenticabili versi, a partire dallo PseudoBaudelaire.
Sull’importanza di questo poeta per la storia della nostra poesia di fine secolo ho già avuto modo di scrivere qui, in occasione di un numero monografico che gli dedicò il Verri e della pubblicazione, presso Le Lettere della sua raccolta intitolata Tutti i film.
Se Costa torna con tanta regolarità lo si deve, a mio parere, all’assoluta singolarità della sua opera e alla sua capacità di stabilire relazioni con il futuro, alla sua ‘nostalgia del futuro’. La sua inattualità lo rende puntualissimo, ogni volta che occorra immaginare un avvenire possibile per la poesia. Non a caso sono giovani i curatori delle ultime uscite del reggiano, entrambe presso Argo editore.
La moltiplicazione delle dita (a cura di Andrea Franzoni e Roberta Bisogno) ci offre uno spaccato estremamente significativo del Costa ‘patafisico’ e ‘disegnatore di poesia’: questo delizioso e imperdibile libretto, basato sulla ripubblicazione dei suoi contributi al “Caffè letterario e satirico” alterna disegni e testi ‘patafisici’ e surrealisti (quasi alla Danil Charles, per molti aspetti, ben prima che del russo si parlasse anche qui da noi) in un dialogo che sembra più vicino al contemporaneo Poetry comics che alla poesia visiva o concreta.
Dell’efficacia irrespingibile della scrittura e dell’immagine costiane è poi testimonianza la lettera di Fortini – insospettabile quanto a simpatie neo-avanguardiste – che nel ‘64 gli scrive, tanto ammirato quanto stupefatto della sua stessa ammirazione: “(…) ho letto ‘d’un fiato’ il suo libretto di composizioni. Con un consenso che ora non ho modo di difendere o contestare, nemmeno con me stesso; implicato, più che interessato, dalla posizione, che una volta si sarebbe detta etico‒politica. A rigor di termini non credo che essa offra nessun futuro, né remoto né prossimo, né politico né poetico: ma questo è altro discorso e nulla toglie alla intelligenza rara, alla forza di sarcasmo, alla pulizia di quel che lei scrive”.
Altrettanto interessante è il primo volume delle Opere complete, dedicato alle Poesie infantili e giovanili (a cura di Chiara Portesine). Questa iniziativa di Argo, che grazie al sostegno della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e del fondo che essa ha dedicato al poeta, dove sono conservate tutte le sue carte, ci dà infine la certezza che tutti i suoi materiali potranno presto essere a disposizione degli studiosi e dei lettori, offre uno spaccato dell’apprendistato del poeta reggiano capace di fare chiarezza su molte caratteristiche del suo stile maturo, ma anche l’immagine di un autore che agli esordi studia tutto, a partire dai classici, ruba tutto, mescola tutto. Lo divora con appetito cannibale per restituirlo trasformato e soprattutto capace di costituire, man mano che viene digerito, nutrimento e fondamenta stabili per il Costa che verrà.
Non a caso la curatrice sottolinea come sia impensabile (e probabilmente inutile) immaginare un edizione critica di materiali come questi: “Come è possibile determinare l’ultima volontà dell’autore, di fronte a un’opera che conosce pochi momenti di stasi ordinatrice e, piuttosto, rivela una necessità permanente di ripetere, aggiornare, aumentare, cancellare, cambiare pelle? Le datazioni si intrecciano, la stratigrafia degli inchiostri si confonde, si contraddice e si oblitera nella versione successiva: nei quaderni di appunti interagiscono versi estrapolati da poesie differenti e costretti a reagire chimicamente tra loro in una nuova mistura. Più che scrittoio, quello di Costa è un pericoloso antro alchemico, in cui tutti gli ingredienti possono essere mescolati, buttati via e recuperati in extremis, con buona pace della sicumera interpretativa di filologi e studiosi”.
“Ecco qui la storia del mio fallimento come scrittore e la storia del mio successo come conversatore”, chiosa in anticipo Costa stesso, con un’allusione che non può non ricordarci un altro magnifico conversatore, suo sodale, quel Paolo Fabbri, semiologo e studioso impareggiabile, che ci ha da poco lasciati.
“Una vocazione per la parola, pertanto, che risulta inscindibile da una tensione alla dimensione fisica e materiale della voce – in un’idea di letteratura come ‘conversazione’ che implica il coinvolgimento dialogico e collettivo di un uditorio di ascoltatori-lettori, che cooperano attivamente alla costruzione del senso del testo”, sottolinea Portesine, e a ragione.
Costa, insomma, non nega solo l’io dell’autore, ma sin quello del testo. Nega alle sue poesie ‘individualità’ le smembra e le ri-assembla come fossero Frankenstein alfabetici e concede loro un momento di identità soltanto quando esse si fanno azioni, performance.
I testi non sono tessere singole e compiute, ma molecole di un flusso che – non a caso – trova la sua collocazione più adeguata quando si fa oralità, componendo e scomponendo un testo liquido e metamorfico che tende, agli esordi come durante la maturità, a riproporsi sempre diverso e sempre uguale a se stesso.
Questo volume iniziale, che ci offre le composizioni di un Costa ancora adolescente, ha quindi un interesse non soltanto filologico, o storico letterario, da studiosi ed esperti della materia, esso ci permette di ricostruire, quasi a tutto tondo il big bang da cui poi sarebbe nato il Costa maturo.
Esso ci dimostra come, al fondo di tutta la sua opera, ci siano invarianti poetiche capaci di trasformarsi e mutare negli anni, senza perdere del tutto la loro riconoscibilità.