Il mondo sta male. La pandemia si è diffusa dappertutto ed è veramente diventata tale, anche per quanti non volevano rassegnarsi all’idea che tutti siamo in potenziale pericolo di vita. Dal Brasile, agli Usa e alla Russia perfino i più ostinati si sono acconciati all’idea che siamo di fronte a una gravissima epidemia, che i numeri – anche se in molti casi nascosti o occultati – da tempo confessavano inesorabilmente.

Allora ci viene il dubbio che quanti non volevano rassegnarsi all’idea di questa inattesa striscia di morti – che è certamente conseguenza in gran parte di errori umani – in realtà più che nascondere ai propri elettori i rischi del Covid-19, volessero occultare la crisi economica, le difficoltà diffuse e insolute dell’economia mondiale, che ci portiamo dietro in maniera sempre più pesante almeno dagli anni ’90, e nelle quali l’Italia, purtroppo, è uno dei campioni mondiali.

A braccetto con il Coronavirus viaggia infatti una crisi strutturale di questo modello capitalistico – che va indifferentemente dalla Cina agli Usa, dalla Germania al Giappone, al Regno Unito e dalla Russia – e che, nonostante i pannicelli caldi con i quali è stato medicato ultimamente, funge da base per ulteriori gravi crisi, sanitarie, ambientali e – perché no? – morali, culturali e politiche. Crisi dalle quali, ovviamente, non usciremo né con i buoni spesa-vacanze del governo, né con gli aiuti più o meno costosi del Mes.

Il problema è più profondo, e come ha illustrato in suo recentissimo lavoro Mariana Mazzucato sta nel “valore” delle nostre attività, dei beni che produciamo, valore appunto che è ben diverso dal “prezzo”, al quale troppo spesso viene affiancato, quasi i due concetti fossero intercambiabili ed equivalenti.

Cercherò di farla il più breve possibile: il capitalismo occidentale, nella forma in cui noi l’abbiamo esportato dappertutto, negli ultimi decenni è diventato – come già avevano previsto molti economisti dell’800 da Ricardo a Marx – molto meno profittevole, per una serie di motivi che qui non possiamo analizzare, ma che in parte sono fisiologici (“saggio naturale decrescente del profitto”), e in parte sono legati a una perdita di dinamismo e probabilmente di motivazioni nei principali attori.

In altre parole, se nella nostra splendida Italia, fino a pochi mesi fa, l’unica attività che poteva dare certezze di reddito, il lavoro che per moltissimi poteva costituire l’ancora di salvezza in un mercato complicatissimo, era la gestione di un bar o di una pizzeria, ciò voleva significare probabilmente qualcosa.

Onestamente, se la salvezza di una data economia sta nella ristorazione, al minimo questo è indice di fondamentali poco sani. Se un’attività può restare nel mercato anche se praticata con una professionalità improvvisata, in presenza di limitati margini di profitto e non di rado a mezzo di pratiche irregolari, ma pressoché obbligatorie; se in sintesi il mercato è segnato da saggi di rendita sul capitale investito molto bassi, dove le imprese riescono a sopravvivere anche facendo pochi profitti: questa per forza sarà un’economia debole, che crescerà molto poco. Un’economia da ricostruire, che probabilmente produce pandemie e che dalle pandemie viene messa in ginocchio.

Il “bello” è che questa economia, in molti settori, fonda i suoi magri e decrescenti profitti su attività scarsamente redditizie e su appoggi molto gracili, possibili per:

1. una forte pressione (marketing) sui consumi non necessari, futili o lussuosi, consumi appunto non in grado di generare quantità elevate di ricchezza reale;

2. un basso livello di valore (plusvalore netto) insisto nella maggior parte dei beni prodotti;

3. un basso, illusorio costo del denaro e un utilizzo strumentale (dis-equilibratore) della moneta;

4. prezzi elevati e salari elevati, ma in realtà rispetto ai primi, con una costante diminuzione del potere d’acquisto (= mancata produzione di ricchezza reale).

A questa situazione di progressiva diminuzione del tasso dei profitti netti – che appunto consente la permanenza sul mercato anche a soggetti straordinariamente inefficienti – hanno fatto da corollario almeno altre due situazioni, che sono i famosi pannicelli caldi, utilizzati nel tentativo di mantenere alti i profitti, in assenza di un incremento di efficienza e di investimenti produttivi:

1. un uso strumentale e temporaneo della finanza e dei suoi mezzi come illusorio escamotage per la produzione di profitti, che in realtà, come bene ha dimostrato appunto la Mazzucato, non vengono generati, per l’impossibilità strutturale della finanza di produrre ricchezza reale (valore) e per la ciclicità costellata di diseconomie della stessa;

2. un crescente, indiscriminato sfruttamento dei beni comuni (ambiente) intesi come risorse a basso prezzo per il produttore e quindi come mezzo per il contenimento dei costi di produzione. (Potremmo aggiungere anche l’apporto certamente nefasto di politiche economiche iperprotezionistiche, ma queste rappresentano certamente una conseguenza, più che una causa).

In definitiva osserviamo come da decenni il capitalismo mondiale ha scelto un modello di economia “artificiale”, irreale, inefficiente e foriero di esternalità negative, sull’ambiente e in generale sul benessere della popolazione. Molto terziario, molto lusso, tantissimo spreco (luxurious waste, come diceva Veblen), ricerca esasperata dei bassi prezzi come unico mezzo per il sostegno alla domanda, scarsi investimenti e sempre meno ricerca nei settori tradizionali, siderurgica, meccanica, elettronica, abbigliamento, margini risicati per l’agricoltura e tutta la sua filiera.

L’hanno detto in molti e noi lo ripetiamo. Il Coronavirus dopo aver convinto molti capi di governo che la pandemia era una cosa seria, potrebbe convincerli anche che i problemi dell’economia mondiale sono altrettanto seri e non dovrebbero essere nascosti sotto il tappeto insieme allo sporco.

Il Covid può essere un ottimo punto di partenza per ristrutturare l’economia capitalistica, riportandola al punto di partenza. Un’economia che non serva a se stessa o peggio ad alcuni furbetti. Un’economia per gli uomini, che funzioni e che svolga non solo la funzione di generare i beni di cui gli uomini hanno bisogno, ma che realmente contribuisca all’evoluzione sociale basata sul merito, alla crescita virtuosa del benessere generale (che non è quello dei dati aggregati). Un capitalismo valoriale e democratico.

Chi conosce la storia del capitalismo, sa che il capitalismo ha sempre spiegato il massimo delle proprie capacità di produrre ricchezza e benessere allorché ha perseguito e camminato sulle gambe di ben precisi valori morali, che onestamente da tempo non riusciamo a vedere.

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