Oggi la Francia festeggia la ricorrenza della presa della Bastiglia, ingresso del popolo di Parigi nella rivoluzione del 1789 e messa in discussione dello stato assoluto sorto da secoli di guerre di religione in Europa. L’assalto costò la vita a un centinaio di parigini, donne e uomini, che non dobbiamo dimenticare. Sono passati 231 anni. Ha importanza? La memoria dei caduti non ci appartiene per la nazionalità, la lingua o l’epoca in cui sono vissuti, ma per il motivo per cui hanno scelto di rischiare andando avanti, divenendo amici senza limite e senza tempo.

Mohamed Lahouaiej-Bouhlel si è scagliato quattro anni fa con un grosso camion contro la folla che aveva appena festeggiato il 14 luglio sul lungomare di Nizza. Ha ucciso in diciotto minuti 84 persone, tra cui 13 bambini, e ne ha ferite centinaia prima di essere ucciso (due dei feriti non ce l’hanno fatta). Hanno perso la vita sei italiani: Mario Casati, Carla Gaveglio, Maria Grazia Ascoli, Gianna Muset, Angelo D’Agostino e Nicolas Leslie, italoamericano.

Lahouaiej-Bouhlel gridava “Allahu Akbar” (Dio è il più grande) mentre schiacciava con parafango e copertoni corpi di persone che non conosceva. Trenta delle vittime erano di religione musulmana. Venti tunisine. Sotto il peso e lo schianto che le stritolava non stento a credere che quelle persone si siano sentite piccolissime, insignificanti rispetto al Dio che quell’uomo aveva in mente.

Due giorni dopo l’Isis annunciò che l’attentatore era un suo “soldato”. Soldati particolari, che affrontano persone disarmate e folle ignare. Seppi dell’accaduto mentre ero a Manbij, in Siria. L’esercito socialista curdo Ypg (Unità di protezione del popolo), parte delle Forze siriane democratiche, composte anche da arabi, combatteva da un mese e mezzo per cacciare Daesh dalla città. Avevamo raggiunto la periferia per riposare, e su una televisione vidi le immagini del panico a Nizza. Un comandante si rivolse a me e ad altri due europei: “Daesh. 84 morti”.

Avanzammo al tramonto, in centinaia, verso il centro della città, in un’offensiva prevista da tempo. Daesh difendeva Manbij con ogni mezzo perché era il suo ultimo collegamento con la Turchia, da cui passavano sia i foreign fighter in arrivo sia gli aspiranti attentatori in Europa, come era accaduto con quelli del Bataclan.

Lungo una strada ricoperta di macerie il comandante della mia unità ordinò a un gruppo di combattenti di proseguire verso un cortile. In prima posizione c’era Bager, 20 anni, originario di Van, in Bakur (la parte del Kurdistan occupata dalla Turchia). Era comandante del Taxim, la sotto-unità. Dietro di lui Dilovan, 19 anni, di Kobane.

Erano amici per la pelle, e io ero con loro da mesi. Atei, sebbene provenissero da famiglie musulmane, tra le loro fonti d’ispirazione citavano Ipazia, Socrate, Lenin e Öcalan. La madre di Bager gli aveva detto che era il prescelto, tra i numerosi figli, per andare in guerra con il suo popolo, e ne era fiero. Dilovan era entrato nelle Ypg perché la sorella era caduta combattendo a Kobane. Si batteva per lei.

Un’esplosione che non posso descrivere squarciò la notte. Bager aveva calpestato una mina e morì sul colpo. Dilovan cadde dietro di lui senza occhi e senza una gamba. La scena mi fu risparmiata. Il mio gruppo era su un tetto a un centinaio di metri.

Dilovan avrebbe preferito morire anziché sopravvivere alla fine del suo amico. Se devo pensare all’orrore del Medio Oriente penso a lui, che oggi ha 23 anni e vive così. Penso a Dilovan ogni volta che un politico italiano stringe la mano a Erdogan o a un suo ministro, come il ministro della difesa Lorenzo Guerini che ha ringraziato giorni fa l’omologo turco per il “contributo alla sicurezza” dato da Ankara nel Mediterraneo, nonostante l’esercito turco stia manovrando in Siria e in Libia migliaia di quei Lahouaiej-Bouhlel contro cui tanti Dilovan e Bager hanno dato gli arti e la vita.

Furono in tanti ad incontrare questo destino a Manbij, attorno al 14 luglio di quattro anni fa, mentre Nizza piangeva i suoi morti. Pagarono l’essere andati avanti per primi – rispetto al mondo – rischiando vite umili non diversamente da chi lo fece 231 anni fa. Posso testimoniare che quegli uomini si riconoscono in un’idea per cui la rivoluzione francese, da loro così lontana nella cultura e nel tempo, è un tassello in un percorso più grande, inestimabile ancorché imperfetto, pieno di limiti e non concluso.

Ricordare chi si è battuto per un fine degno ci distingue dagli indegni. Definisce un “noi” che trascende le frontiere. Senza questo “noi” non potremmo onorare il 14 luglio.

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