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Coronavirus, Brasile: morti centinaia di indigeni. Mea culpa del governo Bolsonaro sull’Amazzonia: “Lento contro deforestazione”

Secondo l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib) il rischio genocidio è "concreto". Intanto il vicepresidente rassicura gli investitori che hanno minacciato di lasciare il Paese se il governo non applicherà politiche ambientali più rigorose

Amazonas, Parà e Roraima. Sono questi i tre Stati brasiliani, tutti nella regione amazzonica, dove il virus ha colpito più duramente le popolazioni indigene. Le vittime, secondo l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib), sono 501, mentre quasi 15mila indios sono stati infettati dal Covid-19 nei villaggi e nelle aree urbane di tutto il Paese sudamericano. Una situazione già denunciata da settimane, complicata dalla mancanza di assistenza sanitaria, dalle intrusioni dei minatori illegali e dalla vulnerabilità al virus delle popolazioni indigene, che contano circa 850mila membri in tutto il Brasile. “Riteniamo che esista un concreto rischio di genocidio delle popolazioni indigene”, ha allertato l’avvocato Luiz Eloy Terena, in rappresentanza degli interessi di Apib. “L’accelerazione dei decessi è molto preoccupante, qualcosa che attribuiamo alla mancanza di pianificazione da parte del governo federale, che fino ad ora ha attuato solo misure insufficienti“, ha dichiarato la coordinatrice di Apib, Sonia Guajajara.

Intanto continuano le pressioni su Bolsonaro affinché scelga il nome di un tecnico per sostituire il generale Eduardo Pazuello, da due mesi ministro della Salute ad interim senza alcuna competenza sanitaria, mentre nel Paese i contagi sono quasi due milioni e più di 74mila i morti. Ma le pressioni proseguono anche sul fronte della mancata tutela ambientale dell’Amazzonia, ora legata a doppio filo con la pandemia, col presidente da sempre più concentrato sullo sviluppo economico che, per molti, è sinonimo di apertura a miniere e disboscamento illegali. Nelle ultime ore, però, è arrivata la prima significativa ammissione di responsabilità da parte del governo: il vicepresidente della Repubblica, Hamilton Mourao, ha riconosciuto che l’esecutivo guidato da Bolsonaro è stato “lento” nell’adottare le misure necessarie per combattere il fenomeno. Secondo Mourao – che è anche a capo del Consiglio dell’Amazzonia, l’organismo, creato nel 1995, responsabile del coordinamento delle azioni per preservare la regione – il Brasile ha iniziato a registrare un aumento significativo della deforestazione e degli incendi dal 2012, con un picco nel 2019, quando si verificò anche una forte reazione internazionale.

“Va ricordato che tutte le risorse del governo in carica sono impegnate nella lotta alla pandemia (da coronavirus). Fino ad ora, non avevamo ottenuto alcuna risorsa extra per le operazioni in corso”, ha detto Mourao durante una videoconferenza con investitori stranieri, che hanno anche minacciato di lasciare il Brasile nel caso in cui il governo non voglia adottare politiche ambientali più rigorose. “In termini di deforestazione, non sarà migliore (quest’anno), ma in termini di (riduzione degli) incendi, sì”, ha aggiunto il vice capo dello Stato.

Mourao ha anche espresso interesse per la riattivazione del Fondo per l’Amazzonia, finanziato da Norvegia e Germania, che ha smesso di funzionare l’anno scorso in seguito all’aumento degli incendi registrati nella foresta e attribuito alla politica ambientale di Bolsonaro. Il Fondo ha contribuito con circa due miliardi di dollari in un decennio per finanziare progetti e azioni di sviluppo sostenibile contro il disboscamento della foresta tropicale più estesa del mondo. Nel caso in cui Norvegia e Germania mantengano la loro posizione riluttante nei confronti del Fondo, ha proseguito Mourao, il Brasile potrebbe richiedere risorse agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Il vicepresidente della Repubblica ha poi ricordato che la conservazione dell’Amazzonia è uno dei requisiti per l’attuazione dell’accordo firmato lo scorso anno tra Ue e Mercosur.