La possibilità di aggirare il vincolo dell’unanimità sulle norme europee in materia fiscale. Gli sconti sui contributi al budget comunitario, di cui finora hanno goduto i nordici ma che potrebbero essere bloccati con un veto. I criteri di ripartizione dei fondi strutturali e i requisiti per riceverli, tra cui il rispetto dello Stato di diritto. Sul tavolo rotondo intorno al quale i leader europei siederanno venerdì e sabato dopo mesi di vertici in videoconferenza ci saranno, certo, le cartelline con i dossier preparati dalle rispettive delegazioni. Ma ognuno dei Ventisette, oltre alla mascherina, porterà al Consiglio Ue convocato per trovare la quadra sul bilancio 2021-2027 e sui prestiti e sussidi per la ripresa post Covid anche un’arma di trattativa. Costruita su misura per (minacciare di) colpire le debolezze dei partner recalcitranti, nel caso la diplomazia non fosse sufficiente.
A poche ore dal via all’incontro le posizioni sono più lontane che mai e 190 sui 500 miliardi di trasferimenti a fondo perduto proposti dalla Commissione (su 750 miliardi totali) appaiono a rischio. Ma i Paesi mediterranei e la Germania – che ha assunto un ruolo di mediazione tra le posizioni di Italia, Francia, Spagna e Portogallo e quelle dei “frugali” capeggiati dall’Olanda – hanno dalla loro alcuni strumenti negoziali che potrebbero rivelarsi cruciali per l’esito del faccia a faccia sugli aiuti.
Il bilancio pluriennale e l’arma del veto – Sia la proposta della Commissione sia quella di compromesso presentata dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel prevedono che il Recovery fund sia legato a doppio filo al prossimo bilancio pluriennale dell’Unione, che dovrebbe valere 1.100 miliardi secondo Ursula von der Leyen e 1.074 nella versione ridotta tratteggiata dall’ex premier belga. Il primo tema sul tavolo, allora, è il via libera alla cornice finanziaria dei prossimi sette anni. Austria, Danimarca, Olanda e Svezia sono contrari a incrementi del bilancio Ue rispetto ai poco più di 1000 miliardi messi in campo tra 2014 e 2020, ma soprattutto non intendono rinunciare agli “sconti” (rebate) su quanto versato a Bruxelles in proporzione al pil. Un privilegio condiviso con la Germania e ottenuto in passato, sulla scia della Gran Bretagna di Margaret Thatcher, facendo leva sul fatto che ricevevano una quota di fondi troppo inferiore rispetto ai contributi messi nella “cassa comune”. Visto che l’accordo sul bilancio deve essere unanime, il premier Giuseppe Conte ha fatto balenare in più occasioni la possibilità di mettere il veto su questi sconti – per l’Olanda valgono 1,5 miliardi l’anno – per convincerli a cedere sul capitolo cruciale per l’Italia, quello del Recovery fund.
Le condizionalità del Recovery fund e il tallone d’Achille di Rutte – La partita dei fondi per la ripartenza post coronavirus e la conversione tecnologica ed ecologica delle economie europee si gioca su almeno quattro fronti: l’ammontare delle risorse, che i frugali vorrebbero ridurre di almeno 100 miliardi rispetto ai 750 proposti dalla Commissione, l’equilibrio tra prestiti e trasferimenti, i parametri di allocazione e le modalità di controllo sui piani nazionali per l’utilizzo dei fondi. Michel, nella sua proposta di compromesso, ha già modificato l’iter autorizzativo: a vagliare e approvare i recovery plan non sarebbe più la Commissione ma il Consiglio, a maggioranza qualificata. L’Aja non si accontenta e chiede che sia prevista l’unanimità, metodo utilizzato anche in altri organismi come il Mes e la Banca Mondiale. Questa insistenza perché sia imboccata una strada che porterebbe al diritto di veto da parte di un singolo Stato rischia però di ritorcersi contro il leader olandese Mark Rutte. I piani di ripresa, infatti, dovranno essere in linea con le “raccomandazioni specifiche per Paese” pubblicate ogni semestre dall’esecutivo europeo. E quelle per l’Olanda censurano apertamente le pratiche di concorrenza fiscale aggressiva che rendono quella legislazione decisamente appetibile per le multinazionali sottraendo gettito agli altri partner europei.
Non solo: mercoledì il commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, ha annunciato che l’esecutivo europeo sta studiando la possibilità di aggirare il vincolo dell’unanimità sulle norme in materia fiscale che finora ha reso impossibile intervenire in maniera efficace contro il “dumping delle tasse” all’interno dell’Unione. L’idea è quella di utilizzare l’articolo 116 del Trattato Ue, che autorizza la Commissione a intervenire con sue direttive per perseguire tutte le situazioni che alterano e distorcono il mercato unico, compresi quindi i regimi di tassazione che possono avere effetti avversi su altri Stati perché inducono le aziende a spostare i profitti dove le aliquote sono più favorevoli. Chi non si conforma rischierebbe di essere sanzionato. Un’altra spada di Damocle per l’Olanda, che grazie a un fisco di favore attrae ogni anno decine di miliardi di profitti realizzati altrove.
La scommessa (e la minaccia) dei Paesi Visegrad – Il terzo schieramento in campo, il gruppo di Visegrad, guarda invece soprattutto al mantenimento delle generose porzioni di fondi strutturali e di coesione ricevute fino ad oggi. Ungheria e Polonia, affiancate da Repubblica ceca e Slovacchia, rifiutano però di sottostare a quella che Michel pochi giorni fa ha messo tra le tre condizioni più importanti a cui vincolare l’accesso ai fondi comunitari: il rispetto dello stato di diritto su tutti i fronti, dai diritti fondamentali dei cittadini all’indipendenza del sistema giudiziario e dei mezzi di informazione. “Se il finanziamento per il salvataggio dell’economia europea sarà condizionato ideologicamente, si finirà presto in un dibattito politico. Se si confondono le polemiche politiche con il salvataggio economico, non ci sarà rilancio dell’economia, e nemmeno un bilancio dell’Ue”, ha avvertito pochi giorni fa il premier ungherese Viktor Orban. Minacciando dunque, a sua volta, un veto.
Giovedì sera Conte ha sentito al telefono Orban, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz e il ceco Andrej Babis. Tra poche ore si vedrà se le distanze si sono accorciate in extremis o dal conclave uscirà un’altra fumata nera.