Ci sono molte contraddizioni nei sistemi di formazione. Qualcuno dice che l’educazione classica sia la più indicata ad aprire le menti: studiare le declinazioni latine e la consecutio temporum prepara alla vita. Altri dicono che il mondo si capisce solo se si “pensa matematico”. Altri dicono che la conoscenza si deve specializzare, perché non c’è più spazio per i tuttologi: la formazione deve essere calibrata sulle necessità del mercato del lavoro.
Il sistema universitario prevede un triennio generale sul tema trattato nel corso di laurea, e un biennio specialistico che approfondisce un argomento specifico. Dopo la laurea specialistica ci si può spingere oltre, con un master o un dottorato, scavando ancora più in profondità nell’argomento prescelto per la propria formazione.
È verissimo che i sistemi produttivi tradizionali vogliono specialisti, ma è altrettanto vero che è oramai evidente che l’estrema specializzazione della conoscenza stia creando problemi: le “soluzioni” degli specialisti possono avere serie conseguenze su altri ambiti in cui le loro competenze sono totalmente inesistenti. Si risolvono problemi creandone altri ancora più gravi. Tipo: produrre energia nucleare e non considerare dove mettere le scorie e come dismettere le centrali.
Gli specialisti scompongono una realtà complessa in tante parti, e ognuno in cerca di comprendere tutto di una di esse, ignorando il resto. Ma il tutto è più della somma delle parti: gli olisti dovrebbero assemblare le parti approfondite dagli specialisti, trovare le connessioni, e comprendere il tutto.
Gli specialisti sono i singoli professori d’orchestra, maestri nel proprio strumento, mentre gli olisti sono i direttori d’orchestra. C’è bisogno di entrambi, ma i sistemi formativi sono sempre più portati a creare specialisti. In certi campi l’approccio olistico c’è, eccome. Lo abbiamo visto con la musica, ma pensate ai titoli di coda di un film. L’elenco degli specialisti è infinito. Ma il ruolo chiave è quello del regista che, come il direttore d’orchestra, mette assieme i pezzi e crea un “tutto” assemblando le singole parti.
È olistico l’architetto che “vede” la sua opera, la schizza su un foglio come Picasso faceva i suoi tori, e poi un esercito di maestranze, dagli ingegneri ai semplici manovali, traduce la sua visione in qualcosa di concreto. Qualcosa che non ci sarebbe, senza quello schizzo. Basta pensare a Renzo Piano e al ponte di Genova.
Ora prendiamo tutto questo e mettiamolo davvero nel “tutto”. Il tutto è il pianeta Terra, e gli ecosistemi che comprendono i viventi, inclusi noi. Ogni cosa che facciamo è inserita in un contesto ambientale. Ma fino a questo punto gli olisti attuali non arrivano. Un tempo ci arrivavano.
Gli architetti del passato quando dovevano costruire una casa si accampavano nel luogo prescelto almeno per un anno, per capire le condizioni in ogni stagione. Studiavano i corsi d’acqua, leggevano il territorio e capivano dove costruire sarebbe stato pericoloso e dove la casa, o il palazzo, o il castello, sarebbero stati al sicuro dalle catastrofi naturali. I materiali da costruzione richiedevano pratiche costruttive raffinate e gli edifici dovevano star su quasi da soli.
Poi è arrivato il cemento armato, e abbiamo costruito dovunque, dai greti dei fiumi, alle falesie a strapiombo. Non si è pensato che il ferro potesse gonfiare e arrugginire, immerso nel cemento. La manutenzione diventa difficile, e vengono giù i ponti, crollano le gallerie. Mentre gli acquedotti romani, fatti di pietre, sono ancora in piedi.
Bisogna saper guardare quel che ci circonda: i disastri che i vari specialisti stanno provocando sono causati proprio dalla mancanza di visione di insieme. È necessario formare anche i tuttologi, in grado di guidare gli specialisti. In teoria questa professione esiste, si chiama politica: l’arte di saper mediare tra le spinte dei vari specialisti. Ma è la cosa più difficile che ci sia, e non si improvvisa.
I corsi di laurea di scienze politiche, così come quelli in economia o giurisprudenza (le lauree di molti politici che hanno studiato) non trattano gli ecosistemi, per esempio, e i disastri attuali sono proprio dovuti a profonda ignoranza dei temi ambientali. Un’ignoranza che accomuna chi ha studiato a chi non ha studiato, a meno che chi non ha studiato sia un pescatore che ancora prende risorse dalla natura, rispettando il mare.
Per ridurre la complessità abbiamo considerato l’ambiente come una costante trascurabile, cosa che un pescatore non può permettersi di fare. Bisogna rimediare e inventare una nuova formazione che tenga conto di tutto questo. Perché siamo comunque ancora tutti pescatori, e se non rispettiamo la natura lei ce la fa pagare.