Il 25 maggio 1992, due giorni dopo l’esplosione lungo l’autostrada di Capaci, il Sisde inviò personale per “il prelievo di materiale roccioso da sottoporre a successivo esame chimico-esplosivistico”. Il particolare si apprende da un verbale di interrogatorio reso alla Procura di Caltanissetta il 27 ottobre del 2010 da Lorenzo Narracci, allora vice capo del Centro Sisde di Palermo dal 2 dicembre 1991 alla fine del 1992, presenti Sergio Lari, Amedeo Bertone, Domenico Gozzo, Stefano Luciani, Nicolò Marino (Procedimento 2554/09).
In base all’interrogatorio apprendiamo che quella incursione delle “barbe finte” sulla scena del crimine destò “sospetti”: disse proprio così Narracci, al punto che l’Autorità giudiziaria (Ilda Boccassini) lo convocò: “Ricordo che fui costretto a relazionare nel dettaglio […] poiché la circostanza del prelievo era giunta alla cognizione dell’Ag. Al riguardo, ricordo che il generale Chizzoni, vice direttore pro tempore del Nucleo Tecnico Scientifico, inviò dei tecnici immediatamente dopo la strage di Capaci, per effettuare un sopralluogo. […] Preciso che l’invio di tali tecnici lo ‘subimmo’ unitamente al capo centro, Ruggeri, e che in merito all’attività non fummo mai messi al corrente dei motivi e dei risultati. Tuttavia, alla luce dell’inusuale prelievo dei campioni sul luogo della strage, sono stato convocato d’urgenza a Roma per relazionare nel dettaglio in ordine alle richieste della dottoressa Boccassini”.
Era noto che uomini del Servizio si precipitarono sul luogo in cui furono uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Il giorno dopo quella missione la Polizia scientifica ritrovò il famigerato bigliettino con un appunto criptico: “Guasto n-2 portare assistenza. 0337806133 G.u.s., Via in Selci, 26 Roma. Via Pacinotti”. Un appunto che fa riferimento a luoghi e sigle del Sisde e che riporta interamente il numero telefonico intestato alla G.u.s., società di copertura del Sisde, e nella disponibilità dello stesso Narracci, risultato completamente estraneo alle indagini.
Ma perché il Sisde realizzò una perizia esplosivistica definita “inusuale” da uno dei suoi più alti dirigenti? Quale autorità lo delegò? (non l’Autorità giudiziaria – è stato interpellato anche l’allora pm Luca Tescaroli che naturalmente è all’oscuro della faccenda). E poi: che uso ne è stato fatto?
Infine: la anomala richiesta di collaborazione rivolta dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra all’allora Servizio segreto civile, nel quale spiccava all’epoca la figura del poliziotto Bruno Contrada, va ricollocata nel tempo rispetto a quanto oggi è noto: non subito dopo la strage di via D’Amelio, ma già nell’immediatezza del 23 maggio 1992.
Una collaborazione vietata dalla legge: una lontana e importante riforma dell’intelligence, quella del 1977, stabilì che i servizi segreti non possono ricoprire incarichi di polizia giudiziaria. La novità venne introdotta per cancellare le tante illegalità realizzate fin allora dal vecchio Sid durante l’ondata di stragi neofasciste. Eppure, nella Palermo nel 1992 quel principio venne arbitrariamente azzerato e nessuno si oppose.
Spie e inquirenti sedevano allo stesso tavolo, condividevano informazioni e stabilivano strategie. “Anche a Roma i più alti vertici della Polizia di Stato sapevano, ma nessuno sollevò obiezioni”, si legge nella relazione dell’Antimafia siciliana guidata da Claudio Fava che mette l’accento sul ruolo di Arnaldo La Barbera, capo del pool investigativo Falcone-Borsellino e illegalmente collaboratore del Sisde.
Secondo la Commissione regionale Antimafia, “l’ingiustificata pervasività dei servizi segreti nelle indagini sulla strage di via D’Amelio è provata e manifesta.” Quel “dettaglio” della perizia del Sisde a Capaci autorizza a pensare che lo stesso sia accaduto per la strage del 23 maggio 1992.