Lobby

5G, l’esperto: “La Ue sfrutti i dubbi sugli apparati cinesi per rilanciare la sua industria delle tlc affossata dalla guerra sui prezzi”

Giorgio Ventre, docente di sistemi di elaborazione delle informazioni all'Università di Napoli, spiega che il caso Huawei potrebbe essere la base per ri(creare) un polo nel Vecchio continente. "Per tanto tempo l'Europa ha avuto una leadership con aziende come Ericsson o Nokia. Ma la competizione ha compresso i margini e gli investimenti si sono orientati verso soluzioni tecnologiche più economiche"

E se la querelle sull’uso di apparati cinesi di telecomunicazioni si trasformasse in un’opportunità? Con la politica che punta a utilizzare il denaro in arrivo dal Recovery fund per recuperare una sovranità tecnologica perduta. Per Giorgio Ventre, docente di sistemi di elaborazione delle informazioni all’Università di Napoli, il caso Huawei potrebbe essere il punto da cui ripartire per rilanciare il settore delle telecomunicazioni in Italia e in Europa. Perché non tutto è perduto: gli Stati Uniti non hanno un campione del 5G, i cinesi sì, ma in Europa ancora sono attive nel settore Ericsson e Nokia. Lo spazio per crescere c’è, le opportunità pure. Serve solo la volontà politica europea e italiana.

Secondo l’esperto, al di là delle ipotesi di spionaggio sostenute soprattutto dagli Stati Uniti, “la questione Huawei ha fatto emergere una debolezza tecnologica europea e a cascata anche italiana”. Nella visione di Ventre, proprio da qui bisogna partire per immaginare il futuro delle telecomunicazioni. “Si tratta di un settore in cui per tanto tempo l’Europa ha avuto una leadership. Basti pensare ad aziende come Ericsson o Nokia, ma anche a tutto il comparto delle telecomunicazioni italiane che per molto tempo è stato addirittura indipendente e poi è stato acquisito da grandi aziende straniere. Ora la domanda che ci dobbiamo porre è perché l’Europa si sente esposta su questa chiusura a Huawei. La risposta è evidentemente legata al fatto che l’Unione non è stata in grado di proteggere i suoi campioni”. L’Italia non fa eccezione. Il risultato è che oggi mentre la Cina vanta una leadership mondiale della tecnologia 5G con gruppi come Huawei e Zte sostenuti da un sistema finanziario forte, il Vecchio continente arranca.

Ma come è potuto accadere tutto questo in un settore in cui l’Europa, vent’anni fa, era un riferimento internazionale? “Nella storia delle telecomunicazioni europee, si è deciso di imporre un numero minimo di competitor, che era in origine addirittura pari a quattro – riprende Ventre – Gli operatori di telefonia mobile si sono quindi moltiplicati in Europa arrivando ad un certo punto ad essere più di un centinaio. La forte competizione ha compresso i margini e così gli investimenti si sono orientati verso soluzioni tecnologiche qualitativamente buone, ma più economiche da un punto di vista del prezzo. Questo ha fatto si nel tempo che i player europei fossero svantaggiati”. Detta in altri termini, è scattata la guerra sui prezzi degli apparati e la forte concorrenza ha giocato contro l’industria delle telecomunicazioni del Vecchio Continente. Ha favorito la Cina che, a prezzi stracciati e con un solido sistema finanziario alle spalle, ha saputo conquistare la leadership tecnologica nel 5G e non solo.

E’ in questo contesto che deve essere inquadrata la scelta statunitense e britannica di stoppare l’uso di apparati cinesi per il 5G, motivando la scelta con la presenza nelle infrastrutture di backdoor, cioè “porte” che concedono al produttore l’accesso in remoto all’apparato ovunque esso sia installato. “E’ come se esistesse la possibilità di un controllo esterno da parte del produttore dell’apparecchiatura – riprende l’esperto -. Anche in questo caso Huawei, che peraltro dagli Stati Uniti è vista troppo vicina al governo di Pechino, ha negato, come hanno fatto anche altre aziende che hanno subito le stesse critiche. Hanno giustificato la presenza di backdoor con la semplice opportunità di effettuare manutenzione in remoto”. Di qui il braccio di ferro che ha visto di recente la Gran Bretagna prendere posizione vietando l’acquisto di apparati Huawei. Gli altri Paesi europei, Italia inclusa, stanno valutando il da farsi. Sapendo che Nokia e Ericsson sono pronte a lanciarsi con forza nella sfida del 5G europeo limitando al massimo i danni derivanti dalla decisione di stoppare le forniture Huawei.

“Da tecnologo sono da sempre contrario alla creazione di barriere che ritengo sbagliate e controproducenti perché, nel tempo, le imprese locali protette finiscono con l’investire poco in innovazione, che invece è favorita in un contesto competitivo – spiega Ventre – Credo che, invece, sarebbe opportuno cominciare ad ipotizzare uno scenario di analisi e di sviluppo strategico europeo come è avvenuto peraltro in alcuni ambiti con successo. Basti pensare ad Airbus: la società è nata con l’idea di creare un polo aeronautico europeo raggruppando le eccellenze europee o almeno parte di esse con un lavoro che è stato molto osteggiato dagli americani al punto da diventare una delle questioni principali nella diatriba nella protezione di mercati fra Stati Uniti ed Europa. Airbus è un campione europeo, che non è solo perché noi italiani abbiamo Leonardo, che nel mercato degli elicotteri è leader. Perché questo lavoro non è stato fatto anche nel mondo delle telecomunicazioni? Perché non nel digitale e nell’information technology? Credo che a questo punto della storia sia doveroso fare un ragionamento di questo tipo. Ripeto non di tipo protezionistico, ma di natura di politica industriale per un settore che è strategico”. Ci sarebbe probabilmente un vantaggio anche per l’Italia. “Se il nostro Paese decidesse di investire, anche in un quadro europeo su queste tecnologie, sulla formazione, incentivando anche la localizzazione in Italia di altre aziende, sarebbe un fatto fondamentale per il futuro”, secondo l’esperto.

A questo punto, Huawei o non Huawei, la palla passa alla politica che in passato non ha brillato. Un esempio può testimoniarlo: il nostro Paese aveva una grande tradizione di aziende nell’elettronica di consumo con marchi come Geloso, Irradio, Brionvega che avevano la capacità di unire tecnologia e design. Ad un certo punto, l’Italia è stata chiamata a scegliere quale era lo standard per la televisione a colori: il tedesco Pal oppure il francese Secam. “La tecnologia aveva già dimostrato che la soluzione migliore era il Pal. Quindi non c’era nulla da decidere – ricorda Ventre -. Eppure i politici non volevano scegliere e noi per cinque-sei anni abbiamo bloccato questa scelta. Chiaramente i produttori italiani non avendo e non potendo decidere se andare sull’uno o sull’altro sono usciti dal mercato della televisione a colori e sono diventati non competitivi. Così è morta l’industria dell’elettronica di consumo italiana. Questa storia è un esempio di come la politica può essere letale nei confronti della tecnologia” conclude Ventre. Non resta che sperare di aver imparato qualcosa dagli errori del passato.