Ho avuto la fortuna di intervistare il maestro Alberto Manzi, pochi anni prima della sua scomparsa, avvenuta nel ’97. Manzi fu l’uomo che, fra il ’60 e il ’68, con le sue lezioni di alfabetizzazione in tv (‘Non è mai troppo tardi, corso per adulti analfabeti’), insegnò a leggere e scrivere a quasi un milione e mezzo di italiani.
Una persona eccezionale, sotto tutti i punti di vista, dotato di grande umanità. Oggi, una sessantina di anni dopo, il problema dell’istruzione di massa si ripropone, anche se in termini completamente differenti. In un articolo scritto per La Via Libera, il sito istituzionale di don Luigi Ciotti, Massimo Razzi, già giornalista de la Repubblica on line, scrive: “Siamo tutti più connessi e quindi, potenzialmente più ‘inclusi’. Ma la connessione che ci unisce e ci collega non è uguale per tutti e finisce per diventare un nuovo punto di differenza, di discriminazione: un altro gradino della scala sociale da salire per chi parte da più lontano. Non è la prima volta che succede nella Storia dell’uomo: ci sono voluti secoli affinché l’istruzione fosse alla portata di (quasi tutti)”. E qui ritorna la vicenda del maestro Manzi versione 2020.
Razzi si riferisce al lockdown da Covid-19 che ha dimostrato, semmai ce ne fosse stato bisogno, quanto rilevante sia oggi la necessità di una diffusa e capillare informatizzazione del nostro Paese. E ricorda che in Italia ci sono 9,6 milioni di minori, di cui 8,5 rimasti a casa da scuola durante il lockdown secondo una ricerca di Openpolis. L’1,1% a scuola , dunque, proprio non ci va. Mai. Pare incredibile nel 2020, ma il 12,3% degli studenti (20% al Sud) non ha un computer a casa. Addirittura il 57% (più della metà!) non ha un pc personale. Ricorda Razzi: “È come se ai nostri tempi avessimo dovuto dividere il ‘sussidiario’ con papà, mamma, fratelli e sorelle”.
Perché, dunque, la scuola italiana non si adegua ai tempi? In questa fase (post?) Covid, lo Stato, finora, ha stanziato 150 milioni (nel decreto Cura Italia) per la didattica a distanza degli studenti meno abbienti e per la digitalizzazione delle scuole elementari e medie, ricorda ancora Razzi. Eppure “la metà dei comuni italiani non sono ancora arrivati alla banda larga”.
Secondo l’indice “Desi” (Digital Economy and Society Index), “l’Italia è al 25esimo posto sui 28 stati dell’Ue”. Siamo messi proprio male. Con il finanziamento del decreto Cura Italia potrebbe essere acquistato circa un milione (forse un milione e mezzo) di tablet, ma “ce ne vorrebbero almeno altrettanti”, di quattrini, “per mettere a posto i livelli (spesso infimi) di connessione delle scuole, per dotarle di wi-fi abbastanza potenti”.
Se andiamo a vedere nel dettaglio geografico nazionale, scopriamo che è Sondrio la provincia più digitalizzata (10,9 computer ogni cento studenti), ma Roma è appena a quota 3,3, Bologna a 5,2, Milano a 5,7. I dati migliori sono per L’Aquila (8,7), Trieste (7,5) e Potenza (7,3). I peggiori: Cagliari (2,1), Perugia (2,4) e Genova (3,2). Per alcune regioni, come la Liguria, stretta fra mare e monti, ci sono anche problemi di carattere geomorfologico. In pratica, dai dieci ai trenta studenti (dipende dal luogo) dovrebbero utilizzare (più l’insegnante, ovviamente) un unico computer, spesso preistorico.
Una soluzione l’avrebbe trovata l’informatico statunitense Nicholas Negroponte che, il 28 gennaio 2005, propose di costruire computer “super-basici” a energia solare, da 100 dollari, per informatizzare le popolazioni più disagiate fra le quali, visti i dati, potrebbe entrare a buon titolo anche l’Italia. Per ora, comunque, non ci sono notizie confortanti sull’applicazione pratica del progetto di Negroponte. Si parlerebbe, per 8 milioni di studenti, di un finanziamento da 800 milioni di euro.
“Poi, ogni anno”, precisa Razzi, “basterebbe meno di un terzo per rimpiazzare gli strumenti obsoleti e acquistarli per i nuovi arrivati” e poi “un computer utilizzato per tre anni da uno studente delle medie (o per 5 da uno studente del liceo) opportunamente revamped (rinnovato, nda), non potrebbe essere regalato, in un passaggio generazionale a rovescio, a un over 67 che va in pensione e che ha il diritto/dovere di mantenersi collegato, informato, immerso come gli altri nella società integrata?”.
Si auspica, dunque, un vero e proprio, oggi irrimandabile, “socialismo digitale”.