di Lara Taccini

Se il nemico viene da fuori fa più paura. Abbiamo qualcuno da additare, qualcuno che non parla la nostra lingua, che varca i confini e viene a “ungere” la nostra terra. Non importa se l’untore è il lanzichenecco o il tunisino, il pakistano, il somalo di turno… è comunque colpevole in quanto straniero.

E la storia come sempre si ripete e come sempre ci insegna poco. Oggi la guerra è contro l’infinitamente piccolo, un virus, con un prefisso persino regale, ce lo abbiamo in casa già da un po’ – sempre lo straniero ce lo ha portato, direte voi – ma se l’indice di contagio torna a salire abbiamo finalmente i colpevoli: i migranti che stanno sbarcando in questi giorni sulle nostre coste.

Noi no, noi sempre ligi da quando ce lo hanno imposto a suon di ordinanze e di morti, che doveva arrivare il pastore incazzato nero col bastone in mano, se no mica la capivamo, sempre con la nostra mascherina penzolante sotto il collo o legata attorno al braccio, pronti a pantagrueliche cene, purché tra congiunti, ma sì, passino anche gli amici. Noi no, sempre ligi, purché non ci tolgano il mare, l’aperitivo, la discoteca, lo shopping al centro commerciale ecc. ecc. ecc. Noi siamo puliti, belli lindi, nessun virus né batterio abita in noi, ne siamo certi… non saremo mica tutti portatori sani?

Invece là, su quel barcone degli “ultimi”, sporchi, affamati, con mezza speranza aggrappata allo scafo di una nave scalcinata, là ci immaginiamo che abitino le peggiori nefandezze: virus, malattie, sporcizia. E l’unico imperativo è: non portatecele in casa nostra.

Ci siamo scannati per un pacco di pasta, o ancora peggio per un rotolo di carta igienica; con la bocca tappata dalle mascherine con le scritte più assurde abbiamo negato un sorriso persino a noi stessi, abbiamo schivato il “fratello” italiano al supermercato come il peggiore degli appestati, ma dopo la spesa settimanale tornavamo a sdraiarci nei nostri comodi divani, ad abbuffarci di pizze fatte in case e dolci di ogni sorta, sempre “home made”, piangendo con le ultime lacrime rimaste la nostra libertà perduta.

Avremmo dovuto uscirne migliori: già, come sempre in questi casi, il modo condizionale ci salva dai fallimenti. Ed ora quei 28 o 42 (non importa il numero) migranti positivi rischiano di vagare per tutto lo stivale come i peggiori degli untori.

Forse una cosa, terribilmente banale, avremmo dovuto capirla: che la morte, quando il suo odore si fa più vicino, fa paura anche al più coraggioso dei soldati e pur di schivarla saremmo pronti a tutto, anche a rinchiuderci per mesi nella tana come formichine impaurite o a saltare su un barcone, ammassati come i topi affidandoci a marosi incazzati sognando un approdo sicuro.

Ma in fondo era questo che volevamo: tirare un sospiro di sollievo perché abbiamo di nuovo dei colpevoli contro cui dirigere il nostro dito censore se il Covid torna a circolare e così tutti potremo continuare liberamente a sorseggiare spritz sulla battigia e a sbaciucchiare l’amante conosciuto la sera prima, perché la colpa finalmente non è più nostra.

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