Lo studente dell'università di Bologna è uno dei 35mila carcerati egiziani su 115mila a trovarsi in detenzione preventiva, in attesa di un regolare processo. I suoi legali, insieme ad altre organizzazioni in difesa dei diritti umani, continuano a fare appello per la sua liberazione ed hanno lanciato una petizione su Change.org per chiedere aggiornamenti costanti sulle condizioni dei prigionieri nel Paese, dopo i casi di Covid che hanno interessato diversi istituti di pena
Erano in molti a temere che la decisione della Procura del Cairo di rinnovare di altri 45 giorni la detenzione avrebbe rappresentato un duro colpo per Patrick Zaki. L’ennesima sentenza-beffa, formulata il 12 luglio scorso, ha confermato il carcere per il ricercatore egiziano e studente Erasmus a Bologna in diritti civili e di genere almeno fino alla fine di agosto. Una situazione non certo unica, la sua. Si stima, infatti, che in Egitto quasi un terzo dei prigionieri, 35mila su 115mila, si trovi in regime di detenzione preventiva. Il giovane studente da 165 giorni si trova nel carcere di Tora e dire che la sua situazione si sta ormai consolidando non è ormai più una forzatura: “Ormai appare abbastanza chiaro, il mio ex collega ed amico è diventato un ostaggio più che un prigioniero nelle mani delle autorità egiziane – sostiene Gasser Abdel Rezak, direttore dell’Eipr (Egyptian initiative for personal rights), l’organizzazione per cui Zaki ha lavorato per anni prima di partire per l’Italia – Il pezzo di un ingranaggio nel quadro più generale delle relazioni tra il vostro Paese e l’Egitto. Lui ci è finito in mezzo e si rischia uno stallo drammatico del suo caso, come il carteggio su Giulio Regeni, al momento congelato. È tutto così evidente e di facile soluzione all’apparenza, sia nella vicenda dell’assassinio di Regeni che nell’arresto di Patrick, eppure nulla si muove. I due ragazzi sono stati e sono altrettante pedine all’interno dei rapporti bilaterali tra Italia ed Egitto, tra risorse, affari e reciproci vantaggi economici. Rompere questo equilibrio potrebbe essere negativo per entrambi, così nulla accade, per non creare disturbo. Vede, il vostro Paese non ha sufficiente forza per dire al Cairo ‘adesso basta, fate uscire immediatamente Patrick Zaki dal carcere e lasciatelo tornare in Italia per proseguire gli studi, adesso, subito’. Altri Paesi questa forza ce l’hanno e quando vogliono la mettono in pratica”.
Le notizie sulle sue condizioni di salute, comunque, rimangono positive: “Dopo l’ennesima sentenza di rinvio del giudizio siamo riusciti ad entrare in contatto con Patrick. Lui sta bene, fisicamente e psicologicamente, lo abbiamo sentito di morale abbastanza alto. Non ce l’aspettavamo, ma è così”, ha aggiunto.
Assodato il prolungamento della detenzione per Patrick Zaki, il focus è sugli istituti di pena, in una fase caotica dello sviluppo della pandemia nel Paese nordafricano. Il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi non è riuscito, come altri suoi colleghi della regione, a limitare i danni del coronavirus. Contagi e vittime continuano ad aumentare, quasi 90mila i primi e oltre 4.300 le seconde. Se fuori è crescente il timore per un virus al momento incontenibile, si allarga sempre di più l’ansia per la diffusione del Covid-19 all’interno delle carceri. Come raccontato dal Fatto.it pochi giorni fa, un report diffuso dal centro anti-tortura El-Nadeem ha mostrato come nel principale penitenziario maschile d’Egitto, quello di Tora, il coronavirus sia entrato, nonostante il black-out imposto dalle autorità sulle informazioni.
A rafforzare questa tesi anche il rapporto di Human Rights Watch, secondo cui addirittura nell’ultima settimana si sarebbero verificati una dozzina di decessi in dieci istituti di pena: “La causa principale del contagio è l’affollamento delle celle e degli ambienti carcerari, il governo egiziano deve accelerare il rilascio dei prigionieri per limitare la diffusione del virus. Questo non succede, le autorità rifiutano di testare, curare ed eventualmente rilasciare parte dei detenuti, quanto meno i più fragili”, ha affermato Joe Stork, vicedirettore di Human Rihjts Watch per il Medio Oriente e il Nord Africa.
A rendere tutto paradossale è il silenzio assoluto attorno alla sorte dei prigionieri nell’era della pandemia. Le visite dei familiari sono state interrotte dal marzo scorso e i contatti limitati al massimo, con i detenuti costretti a trovare ogni espediente possibile per comunicare con i familiari. Nulla o poco si sa di cosa accada all’interno delle celle, da qui il lancio di una petizione su Change.org promossa da quattro delle principali organizzazioni per la tutela dei diritti umani in Egitto. Del gruppo sono parte integrante anche l’Ecrf, quella che segue la famiglia di Giulio Regeni, e proprio l’Eipr guidata da Gasser Abdel Rezak: “Vogliamo avere informazioni costanti sulle condizioni di salute, e non solo, dei detenuti, consentire loro di inviare messaggi, lettere e poter chiamare i propri cari – sono le richieste dei promotori fissate nella petizione presentata al governo del Cairo – Servono nuove procedure di comunicazione, specie in questa delicata fase in cui la pandemia è una minaccia gravissima. I report parlano di nuovi casi di coronavirus, tra personale e detenuti, i nostri avvocati e le famiglie sono tenute all’oscuro di tutto. È fondamentale che i carcerati possano ricevere disinfettanti e dispositivi di protezione per applicare le misure di sicurezza sanitaria. Chiediamo il rilascio dei prigionieri di opinione e di coscienza, di quelli che soffrono di malattie croniche, degli ultrasessantenni e delle donne incinte”. Sono alcune centinaia le firme già raccolte dalla campagna.
A proposito di carcerazione preventiva, ieri la Procura del Cairo ha rinnovato la detenzione nel carcere femminile di Qanater di Sanaa Seif. La giovane attivista, 27 anni, è stata arrestata il 23 giugno scorso proprio davanti alla sede della Procura a New Cairo dove si trovava per denunciare l’aggressione subita il giorno prima assieme alla madre Leila e la sorella Mona all’esterno del carcere di Tora. Dentro l’istituto di pena dal 29 settembre 2019 è rinchiuso l’attivista Alaa Abdel Fattah, figlio e fratello delle tre donne.