Il governo di Madrid ha predisposto 18 linee-guida nel settore turistico per il contenimento della diffusione del Covid. Ce n’è per tutti: agenzie di viaggio, locali notturni, strutture per il “turismo rural”, campi da golf. I punti di forza che da anni fanno del turismo la prima industria del paese, una macchina che genera il 13% del Pil – una incidenza più forte del potente settore del mattone – dando impiego a quasi tre milioni di persone.

In queste settimane di luglio – anche prima del repunte (il rialzo dei casi di contagio) degli ultimi giorni – Barcellona appare una città senza turisti. Fa impressione vederla così. Si è puntato su programmi promozionali per il rilancio, come Viu Barcelona, per recuperare il turismo interno, intaccato negli anni da aspre campagne politiche per l’indipendenza, e quello di prossimità, diretto in primo luogo ai vicini francesi. Però poco è successo, i progetti della sindaca Ada Colau sono andati a sbattere contro l’assenza di domanda, le irresponsabilità per gli assembramenti, le nuove paure.

E fa impressione vederla così perché il dinamismo occupava gli spazi della città, i turisti erano i padroni delle Ramblas o del Barrio Gotico, gli aerei, per il 70 per cento compagnie low-cost, spadroneggiavano nel cielo sopra Barcellona. Puntando gli occhi in alto dalla spiaggia di Bogatell, una delle più frequentate, si notava la frequenza del traffico aereo, ogni quaranta secondi un aeromobile tracciava la rotta lungo il litorale cittadino, una virata nello stesso punto e il muso che punta verso El Prat, il principale scalo catalano, il secondo di Spagna dopo Barajas di Madrid.

Quella intensità di passaggi ha portato l’aeroporto di Barcellona a battere tutti i record nell’anno 2019, quando oltre 52 milioni di passeggeri, in arrivo e in partenza, fecero di El Prat il sesto scalo d’Europa.

Oggi si stima che l’aeroporto perderà, nell’anno in corso, quasi la metà dei passeggeri, una drastica riduzione dei numeri che, per molti, porterà a ripensare il rapporto tra il turismo e la città. L’affitto breve, capitanato dalla piattaforma Airbnb, ha stravolto il sistema dell’accoglienza e anche il mercato delle locazioni residenziali, cresciuto di un 7 per cento.

Le limitazioni negli ultimi anni adottate in città, ma anche a Palma di Maiorca o a Valencia (qui l’affitto breve è consentito solo ai primi piani degli edifici), sembrano superate dalla nuova realtà che ha già determinato i proprietari di immobili ad una riconversione puntando sui tradizionali affitti ad uso abitativo.

Il settore turistico boccheggia in Catalogna e nel resto del paese: nelle vicine Baleari ad esempio, dove la voce turismo incide per il 45 per cento del prodotto interno, nei primi cinque mesi dell’anno visitate da sole 400 mila persone, nello stesso periodo del 2019 furono oltre 3 milioni.

Soffrono anche l’Andalusia: il complesso dell’Alhambra di Granada è il sito che registra più presenze nel paese, e le isole Canarie (qui il turismo forma il 35% del prodotto interno). L’arretramento economico è avvertito ovunque: secondo l’Istituto Nazionale di Statistica si tratterà di un vero tonfo, calcolato in 40 miliardi di euro.

Se pochi mesi fa si celebravano gli 83 milioni di ingressi dall’estero – gli stranieri apprezzano non solo lo stile di vita, las fiestas decantate da Hemingway, ma anche la qualità dei servizi e del sistema sanitario -, con una serie di record da sette anni ripetutamente battuti, oggi fa sensazione vedere qualche gruppo di europei gironzolare tra le strade del centro di Malaga o seduti in un bar all’aperto a Puerto de la Cruz (Tenerife).

In un tale panorama non meraviglia leggere che finora poco meno del 20 per cento degli hotel di Tenerife ha riaperto i battenti (in tutto l’arcipelago sono circa 1700 le strutture ricettive con oltre 400 mila posti letto). È tutto fermo, nel paese del dinamismo.

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