In una serata rovente di luglio molestata da zanzare e umidità tropicale, lungo la via Emilia, Far West della Padania e del calcio nostrano, succede che il Milan vinca e convinca di nuovo: un risultato non scontato, in trasferta, settima vittoria e due pareggi in nove partite post-confinamento che vale il provvisorio quinto posto in classifica, ossia l’accesso diretto ai gironi di Europa League.
Ma succede pure che Ibra realizzi una splendida doppietta: il primo gol di testa, con tuffo acrobatico; il secondo, in contropiede e lesto aggiramento del portiere. Profondità e leggerezza. Allegria e sofferenza. Semplicità e bellezza. Cioè l’essenza del calcio. Mistero, stupore, folgorazione. Il grande mattatore ruba ancora la scena, e gliene siamo grati. Nonostante le bizze da capitano quasi in congedo.
E tuttavia, la vera notizia è un’altra. Attraversa il Mapei Stadium (vuoto, ahimé, per Covid) come una folgore estiva, improvvisa e detonante, elettrizza l’ambiente: Stefano Pioli, gran signore della panchina rossonera, è confermato ufficialmente allenatore del Milan sino al giugno del 2022. Si è conquistato sul campo la fiducia di Elliott, il fondo americano proprietario della squadra.
Dalla Germania arriva di rimbalzo la conferma che le trattative con Ralf Rangnick si sono interrotte. Pare che il Milan debba versare una penale al tedesco, per via di certi pre-accordi.
Insomma, alla fine dell’aria e dell’afa, è calato il sipario di una notte in cui ha vinto il Milan, ha vinto Ibrahimovic, ha vinto Pioli e ha vinto il buon senso. Non è stato affatto banale, dunque, il fischio dell’arbitro che ha sancito la sconfitta di un buon Sassuolo. Vorrei poter dire che ha vinto pure il ventunenne Gigio Donnarumma, alla sua 200esima partita con la maglia rossonera, ma non ha parato il rigore di Caputo, che lo ha spiazzato come un novellino.
Ho, in fondo, vinto pure io che sostenevo l’assurdità – e lo spreco – di volere ingaggiare un allenatore-manager tedesco quando Pioli dimostrava, partita dopo partita, di aver lavorato in modo egregio, di essere riuscito a trasformare un gruppo di giocatori insofferenti, compiaciuti di se stessi e purtroppo indisciplinati tatticamente in una squadra dove ognuno lavora per l’altro, e dove ciascuno sfodera qualità tecniche che all’inizio del campionato erano inespresse o sventatamente esibite.
Poi, aggiungo il miracolo Zlatan. Ha dischiuso la porta all’arte del pallone, alla finalità di un gioco che miscela agonismo e rabbia, determinazione e resilienza, orgoglio e generosità. Ogni volta che lo guardo muoversi in campo provo nostalgia. Ho memoria infatti di prima. Il paradosso è che ora ho memoria del dopo. Avete in mente quelle cantanti liriche che appaiono patetiche ed oltraggiate dall’incalzare anagrafico ma quando cominciano a cantare sono ancora in grado di ammaliare con la loro voce limpida e luminosa, e ti senti dentro il paradiso, mentre il suo canto ti avvolge e commuove? Il tempo si ferma…
Pioli l’ha capito. I compagni adorano Ibra. Lo temono. Imparano. Eseguono. Lo spogliatoio, ha detto ieri Ibra, è stretto attorno a Pioli, perché in fondo lui è il maestro d’orchestra, mentre in campo Ibra è il maestro del coro. Con grande umiltà, Pioli ha confessato a Sky di aver sperato nella conferma, “sono orgoglioso della fiducia”, premio (faticosamente conquistato, sottolineo) alla capacità di valorizzare il gruppo, e chissenefrega se negli immancabili retroscena i soliti bene informati che fino a poche ore fa giuravano e spergiuravano sull’implacabile arrivo di Rangnick ora ci spiegano che il tedesco ha detto che “non è il momento giusto per sbarcare al Milan”, che esigeva pieni poteri e che quando il club gli ha proposto la carica di direttore sportivo, con Pioli in panchina, ha preferito dire di no, anche perché gli offrivano un budget ridotto del 25 per cento rispetto alle premesse di qualche settimana fa (dai 100 milioni previsti per il mercato a 75).
Meschinità. Ecco, se c’è uno che ha perso non è Rangnick, bensì l’amministratore delegato milanista Gazidis. Ha resettato l’ambizioso progetto tedesco, costretto a furor di popolo – il popolo del Diavolo – e a furor di risultati. E costretto ad incassare il plauso mediatico, l’entusiasmo della plebe rossonera e il serafico (in apparenza) commento di Pioli: “Sento la fiducia di Gazidis e dell’area tecnica”. Colonna sonora? Mozart. Le nozze di Figaro… ”Dove sono i bei momenti / di dolcezza e di piacer…”.
Venerdì arriva a San Siro l’Atalanta. Il Milan è a pezzi. Due squalificati (Bennacer e Hernandez, pedine fondamentali), infortunati Romagnoli e Conti. Ci vorrebbe una piccola serenata notturna. Sempre Mozart. Un Rondò allegro… Cosa c’è di più bello dell’ottimismo? E comunque, una sconfitta con la Dea è accettabile: in campo ci saranno le due squadre più in forma della Serie Pandemica.
Vinca la migliore. Cioè, “meglio di no”, direbbe il Paròn, l’indimenticabile Nereo Rocco, fosse ancora tra di noi… oggettivamente l’Atalanta è più forte del Milan. O no?