Cultura

I moti di Reggio, 50 anni fa la rivolta nera dei “boia chi molla” che creò un nuovo blocco di affari e potere. All’ombra di ‘ndrangheta e massoneria

A spiegare le linee di forza che si scontrano e s’intrecciano e si annodano nell’estate 1970 è un libro, Salutiamo, amico (Giunti editore), scritto da Gianfrancesco Turano: a Reggio Calabria scatta una serie di eventi che vanno ben oltre una guerra di campanile e hanno a che fare non solo con Catanzaro, il capoluogo scelto dalla politica nazionale, ma con Roma, Milano, Palermo, Napoli, Washington; con la guerra fredda, l’eversione di destra, i servizi segreti, la strage di piazza Fontana, il tentato golpe Borghese, la massoneria e, infine, la nascita della nuova ’ndrangheta

di Gianni Barbacetto

Cinquant’anni fa, nell’estate del 1970, scoppia in Italia una rivolta mai vista prima, mai vista dopo. Scontri, assalti, barricate, scioperi generali, scuole chiuse per mesi e trasformate in caserme, 43 attentati dinamitardi, undici morti, migliaia di feriti. Una guerra civile in cui per otto mesi una folla armata occupa una città, si sostituisce alle autorità, combatte contro carabinieri, polizia, esercito. “I Moti di Reggio Calabria”: così li chiamano i giornali e le tv, quelli stranieri soprattutto, perché l’informazione italiana, specie la Rai di Ettore Bernabei, cerca di minimizzare e fa fatica a capire.

Oggi, cinquant’anni dopo, ancora minimizziamo e facciamo fatica a capire. I Moti sono un’incomprensibile rivolta di popolo per una questione di campanile: rivendicare per Reggio il ruolo di capoluogo della regione Calabria, contro la designata Catanzaro. Ma c’è molto altro, sotterraneo e invisibile, che si muove dietro la scena visibile delle manifestazioni, delle barricate, degli scontri. A Reggio Calabria, nell’estate del 1970, scatta una serie di eventi che vanno ben oltre una guerra di campanile e hanno a che fare non solo con Catanzaro, il capoluogo scelto dalla politica nazionale, ma con Roma, Milano, Palermo, Napoli, Washington; con la guerra fredda, l’eversione di destra, i servizi segreti, la strage di piazza Fontana, il tentato golpe Borghese, la massoneria e, infine, la nascita della nuova ’ndrangheta, la Santa, e le sue alleanze con la Cosa nostra dei siciliani e la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Fare la guerra per fare la pace, come dirà, vent’anni dopo, Totò Riina: a Reggio in quei mesi si è deciso un nuovo blocco di potere e di affari, arrivato fino ai nostri giorni. Altro che incomprensibile e un po’ pittoresca rivolta per Reggio capoluogo.

A spiegare le linee di forza che si scontrano e s’intrecciano e si annodano nell’estate 1970 è un libro, Salutiamo, amico (Giunti editore), scritto da Gianfrancesco Turano, che è uno dei più originali narratori italiani, se pur penalizzato, nel mondo chiuso della nostra editoria, dal suo non far parte della cerchia dei romanzieri con la patente e dal fatto di fare un altro mestiere, quello del giornalista (all’Espresso). È un romanzo, questo libro, un grande romanzo storico, come ha subito riconosciuto Goffredo Fofi. Ma la vicenda di Nunzio e Luciano, di Rosalba e Giuseppina, di Giampaolo e Amedeo, tra amori e poteri, distilla la grande storia che si costruisce in quei mesi, tra capipopolo e boss, imprenditori e politici, massoni e sbirri.

La rivolta scatta il 14 luglio. Ma a esplodere non sono gli spiriti della Rivoluzione francese, bensì gli umori neri dei fascisti che si mettono alla guida dei rivoltosi. Tutto inizia con una carica violenta delle forze dell’ordine contro i dimostranti per Reggio capoluogo raccolti davanti al municipio. In poche ore sorgono barricate in molti punti della città, vengono appiccati incendi, si contano i primi feriti. Il giorno dopo c’è il primo morto, Bruno Labate, ferroviere iscritto alla Cgil. Il 17 settembre moriranno Angelo Campanella, autista dell’azienda municipale dei trasporti, e il poliziotto Vincenzo Curigliano. Il 16 gennaio 1971 muore l’agente di pubblica sicurezza Antonio Bellotti, 19 anni. Il 17 settembre un proiettile vagante uccide sul lungomare di Reggio il barista Carmine Iaconis, 25 anni. Alla fine, i morti saranno undici.

Reggio non era una città fascista. Alle elezioni del 7 giugno 1970, cinque settimane prima della rivolta, il partito erede del fascismo, il Msi, ottiene 7.838 voti, l’8,4%. I comunisti prendono il doppio (15.761 voti), i socialisti vanno bene (11.315 voti) e la Dc conquista la maggioranza relativa con 36.205 voti (38,9%). Due anni dopo, nel 1972, uno dei leader dei Moti, il sindacalista della Cisnal Ciccio Franco, quello che lancia lo slogan “Boia chi molla”, sarà eletto senatore del Msi con il 36,2%.

I fascisti si mettono alla guida della rivolta visibile, mentre sono in corso due grandi trasformazioni invisibili. La prima ha a che fare con la politica e la guerra fredda, negli anni in cui s’avvia la strategia della tensione, scoppia la bomba di piazza Fontana, vengono progettati i golpe per tenere nel campo occidentale, costi quel che costi, l’Italia del ’68 studentesco e del ’69 operaio. La seconda ha a che fare con il cambiamento di pelle della ’ndrangheta, che passa dalle guardianie e dal contrabbando di sigarette a business più remunerativi (i sequestri di persona, la droga, gli appalti pubblici), ma soprattutto s’integra con un pezzo di classe dirigente locale, i costruttori, i politici, i massoni. Nasce una cosa nuova, la Santa. In loggia i boss emergenti discutono alla pari con politici, affaristi, uomini dello Stato, pezzi grossi dei servizi segreti.

La bomba in piazza Fontana scoppia il 12 dicembre 1969. L’8 dicembre 1970 è programmata l’operazione “Tora tora”, il golpe guidato da Junio Valerio Borghese, capo del Fronte nazionale. Nei mesi precedenti, il principe nero è spesso a Reggio. S’incontra con i capi della rivolta, tenta un comizio (vietato dal questore Emilio Santillo) nell’agosto 1970, come già era stato vietato nell’ottobre 1969, quando i neri si erano scontrati per ore in piazza del Popolo e poi nel resto della città, in una sorta di prova generale dei Moti dell’anno successivo. A Reggio è presente anche Stefano Delle Chiaie, Er Caccola, capo di Avanguardia nazionale e uno dei registi della strategia della tensione.

Il 22 luglio, sei morti sul treno Palermo-Torino che sta entrando nella stazione di Gioia Tauro: viene raccontato come un incidente, ma è una strage, nera e di ’ndrangheta, la seconda dopo piazza Fontana. Reggio come laboratorio, luogo esemplare della “riscossa nazionale”, nell’Italia delle stragi e dei golpe: questo sono i Moti del ’70. E la ’ndrangheta come una Gladio calabrese, presidio contro il comunismo sotto la supervisione delle barbe finte di Roma. Non tutti capiscono. Adriano Sofri, capo di Lotta continua, il 19 ottobre scende a Reggio e in una affollata conferenza stampa all’hotel Excelsior indica i Moti come l’inizio della rivoluzione proletaria in Italia.

A febbraio 1971 la rivolta s’avvia verso l’epilogo. Il 12, il presidente del Consiglio, il democristiano Emilio Colombo, annuncia in Parlamento il “pacchetto per la Calabria”: capoluogo e giunta a Catanzaro, consiglio regionale a Reggio, università a Cosenza. Reggio viene compensata anche da un fiume di soldi, distribuiti in tre aree che corrispondono a tre mandamenti della ’ndrangheta: centro siderurgico a Gioia Tauro (Piromalli), industria chimica a Saline (Iamonte), 600 miliardi di lire del Decreto Reggio per la città (De Stefano).

Il 23 febbraio 1971 i mezzi corazzati dell’esercito italiano espugnano la cosiddetta “Repubblica di Sbarre”. La barricate sono smantellate. I “boia chi molla” sconfitti. Ma intanto, “ricco chi molla”: il denaro dello Stato fa compiere alle cosche il salto di qualità. Negli anni seguenti, scoppierà a Reggio la prima guerra di ’ndrangheta, 200 morti in tre anni, vinta dalla famiglia De Stefano. “Negli anni della grande partita a scacchi Ovest-Est”, scrive Turano, “c’erano mani che muovevano i pezzi e menti che muovevano le mani. Nulla che non si possa già leggere nei Demoni di Dostoevskij”.

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